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Questo articolo è stato pubblicato il 26 luglio 2014 alle ore 09:18.
L'ultima modifica è del 26 luglio 2014 alle ore 10:35.

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Il gigante si è addormentato. Di notte, qui a Taranto, si intravede a stento il profilo dell'acciaieria. Poche luci ne definiscono il perimetro. L'esistenza dei camini degli altoforni è provata dai neon rossi collocati sulle loro cime. Sennò, il buio coprirebbe ogni cosa. A due anni esatti dagli arresti e dal sequestro dell'area a caldo, il maggior organismo industriale italiano - eredità dell'economia pubblica, nella forma delle privatizzazioni di metà anni Novanta - ha ridotto le sue funzioni vitali al minimo.

Le enormi lingue di fuoco non fendono più l'aria serale. I fari artificiali non illuminano a giorno le cokerie. Lo spettacolo vagamente faustiano dell'industrialismo novecentesco, qui declinato per quarant'anni nella forma estrema della siderurgia, ha ceduto il passo a una imperscrutabile inerzia.

Il bioritmo dell'Ilva è rallentato il più possibile. Mercoledì 16 luglio l'impianto ha prodotto la quantità di acciaio minore della sua storia: in quella giornata ha realizzato poco più di 10mila tonnellate. Nel 2013 - durante la gestione del Commissario Enrico Bondi, che è stato sostituito con Piero Gnudi il 6 giugno dal Governo Renzi - la media è stata di 16,3mila tonnellate al giorno. Bondi, che era stato nominato il 4 giugno 2013 dall'esecutivo Letta, aveva gradualmente incrementato nei primi cinque mesi del 2014 la produzione portandola, a fine maggio, verso una media giornaliera di 19mila tonnellate. La produzione effettiva viaggia adesso a un ritmo compreso fra le 10mila e le 14mila tonnellate medie al giorno. Nella delicata fisiologia industriale, perché il sonno non si tramuti prima in coma e poi in estinzione, una equazione elementare non va trascurata. L'equilibrio è a quota 22mila tonnellate. A 22mila tonnellate di acciaio medie prodotte al giorno l'Ilva è a break-even: né perde né guadagna soldi. Con l'effetto moltiplicatore delle grandi fabbriche e dei grandi volumi industriali, se riesci a collocarti al di sopra di questa asticella, allora guadagni molto. Per fare un esempio: nel 2007, ultimo anno prima della crisi, il record assoluto di una media quotidiana di 27,3 mila tonnellate consentì all'Ilva di beneficiare di un margine operativo lordo di poco più di un miliardo di euro. Allo stesso modo, se sei costretto a rimanere al di sotto di questa soglia, rischi di perdere a bocca di barile.

Enrico Bondi e Piero Gnudi, Mario Monti e Enrico Letta, Matteo Renzi, Corrado Clini e Andrea Orlando, Gian Luca Galletti, Corrado Passera e Flavio Zanonato, Federica Guidi, Emilio e Fabio Riva, Franco Sebastio e Patrizia Todisco. Nell'astratta e inflessibile durezza dei fenomeni economici, tutti i nomi dei protagonisti degli ultimi due anni - con i loro meriti e i loro limiti, le loro responsabilità e le loro colpe - scompaiono di fronte a questo semplice numero: 22mila. Ogni mille tonnellate in meno fatte al giorno provoca in proiezione una perdita mensile di 17 milioni di euro. Certo, una perdita puramente "manifatturiera" - circoscritta al perimetro prettamente industriale dell'Ilva - che si può limitare e temperare tagliando, tagliando, tagliando. Ma è esattamente questa l'entità della pallina da tennis in bocca all'Ilva commissariata, che le impedisce di respirare finanziariamente e che rischia di trasformare il suo attuale sonno irrequieto in una rantolante agonia.

Il presidente del Consiglio Renzi aveva promesso, sull'Ilva, un cambio di passo. Bisognerà verificare la destinazione finale di questo nuovo stile di camminata. Ma un cambio di passo, senz'altro, c'è stato. La gestione Bondi ha avuto - rispetto ai diciassette anni di piena proprietà Riva - un tratto di continuità: una impostazione molto focalizzata sull'hardware industriale, concettualmente non dissimile da quella della famiglia lombarda, ma ricalibrata sulle prescrizioni dell'autorizzazione integrata ambientale. Bondi - tre giorni in acciaieria a Taranto e due negli uffici di Viale Certosa a Milano - era un chimico che preferiva circondarsi di ingegneri. Senza entrare nel merito della realizzabilità o meno di una conversione alla tecnologia del preridotto rifiutata dall'attuale Governo e dalla comunità siderurgica italiana, anche questa opzione si iscriveva in uno scenario delimitato dalla tecnologia e dalla produzione. Alle otto del mattino riunione con gli ingegneri di produzione. Con Gnudi, invece, l'impostazione è diversa. Per lo stesso gigante malato, è stata cambiata completamente la specializzazione del medico. Gnudi è un grande commercialista. È capace di muoversi fra la politica e l'economia fin dai tempi in cui, nel 1994, aveva la delega all'Iri per le privatizzazioni. È dotato di un pacchetto di relazioni ampio e trasversale. Gestisce il problema secondo le sue attitudini. E opera con un mandato differente. Il Governo Letta aveva assegnato a Bondi i poteri reali di un capoazienda "di fabbrica", che dal mandato commissariale estendeva la sua mano su tutta l'impresa, partendo dalla componente più manifatturiera. Gnudi, invece, è spesso negli uffici dell'Ilva di Milano e di Roma. Parla con le banche. Delega ad altri la quotidianità produttiva, in un contesto segnato a Taranto dallo svuotamento delle competenze manageriali iniziato con l'azione giudiziaria. Tanto che, proprio in questi giorni, sta realizzando un turn-around della prima linea di impresa e di "acciaieria", non soltanto con promozioni interne ma anche con innesti selezionati dal mercato della siderurgia italiana. Il tutto per trovare un equilibrio - giuridico e azionario, gestionale e finanziario - fra la vecchia Ilva dei Riva e la nuova Ilva che verrà.

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