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Questo articolo è stato pubblicato il 09 settembre 2014 alle ore 07:20.
L'ultima modifica è del 09 settembre 2014 alle ore 10:30.

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Qualcuno in questi giorni ha voluto vedere un contrasto fra il ministro Padoan e il premier Renzi sui tempi del progetto riformatore, ma non è così. Anche a Palazzo Chigi, come al ministero dell'Economia, ci si rende conto che gli effetti delle riforme (quali e quante, si vedrà) non saranno percepiti prima di qualche anno.

Ecco perché l'ultimo Renzi ha collocato il bilancio del suo governo alla primavera del 2017: quasi tre anni. E il suo ministro del Tesoro ha ribadito che un triennio è il «tempo minimo» per valutare l'efficacia dell'impegno riformatore. La prospettiva, come si vede, differisce solo di pochi mesi e non cambia la sostanza del problema: le innovazioni, quelle vere, richiedono tempi lunghi per essere approvate e soprattutto attuate, cioè calate nei meandri di un paese complesso fino a modificare - si spera in meglio - la vita dei cittadini. È noto il pensiero di Napoleone Bonaparte, quando valutava al 5 per cento la fatica di prendere una decisione e al 95 per cento lo sforzo necessario a metterla in pratica. I tre anni previsti da Padoan vogliono quindi essere un gesto di serietà verso l'Europa che si aspetta dall'Italia azioni concrete, ossia riforme realizzate e non solo promesse. In fondo anche Renzi si muove sulla stessa lunghezza d'onda quando fissa il traguardo del 2017.
Questo non significa che si sia fatta chiarezza nel governo sulle cose da fare e su come farle. C'è molto da lavorare nella maggioranza, specie sulle questioni del lavoro e sul famoso articolo 18. Le riforme, quelle autentiche e non solo annunciate, richiedono un'istruttoria tutt'altro che conclusa. Tuttavia l'orizzonte del triennio vuol dire - almeno sulla carta - chiudere la porta al populismo e alla facile tentazione di fuggire le responsabilità con un bagno nel consenso elettorale.

S'intende che il problema politico di Renzi non coincide con quello del ministro dell'Economia. Se davvero l'orizzonte della legislatura si allunga fino a tre anni, ne trae vantaggio il quadro della stabilità interna che si rafforza. I mercati finanziari ne saranno contenti, al pari dell'Unione. Abbiamo sentito il ministro tedesco Schäuble ripetere che è facile sopravvivere aumentando il debito pubblico, molto più arduo è rimettere in moto l'economia con le riforme strutturali. Dunque, brava Italia che si dà una prospettiva di medio termine.

Ciò non toglie che Renzi abbia oggi un doppio problema. Da un lato, definire al più presto la qualità e la portata degli interventi, evitando in Parlamento le trappole della sua stessa maggioranza (compreso il Pd sui temi del lavoro), così da avviare sul serio un triennio riformatore che per ora è in buona misura virtuale. Dall'altro, conservare il consenso popolare fino al fatidico 2017. I sondaggi continuano a premiare il presidente del Consiglio anche in virtù dell'assenza totale di competitori credibili.

È una condizione privilegiata che non durerà in eterno. Proprio perché le riforme non daranno benefici visibili prima di tre anni, il rischio di Renzi è evidente: perdere consenso e quindi slancio e quindi influenza sui vari attori politici. La prospettiva di Padoan, ministro tecnico, è più lineare. Renzi invece deve dialogare con l'opinione pubblica dimostrando di avere il passo del mezzo-fondista e ovviamente non può apparire succube della Commissione europea e tanto meno della Germania.

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