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Questo articolo è stato pubblicato il 08 novembre 2014 alle ore 11:29.
L'ultima modifica è del 08 novembre 2014 alle ore 16:58.
Alcuni anni fa a Washington, Francis Fukuyama rispose alla mia insistenza nell'identificare le radici dell'Unione europea nell'utopia della riconciliazione tra Francia e Germania con una sentenza lapidaria: non sarete uniti finché non spargerete il vostro sangue combattendo insieme anziché l'uno contro l'altro. La guerra come mito fondativo, anziché la pace. Ma perché farlo, se molti concordavano con lui che la caduta del Muro significasse la «fine della storia»? I dissidenti ritiratisi dalla vita pubblica dopo l'89, forse avevano capito, prima di tutti, che la «fine» era sinonimo di «confine». La maledizione dei vincitori che senza più nemici finiscono per perdere se stessi, cosicché la fine della Storia si traduce nel bisogno di nuove divisioni e infine nella vittoria del Muro.
Anche in Germania, la solidarietà rimase solo nel nome dell'odiata tassa che trasferiva redditi dell'Ovest per l'assistenza dell'Est. La solidarietà era diventata letteralmente un'«addizionale» e non più sostanza e significato del cambiamento. Fa parte forse dell'economicismo delle società liberali avere perduto il linguaggio - e il senso - del 1989. Grande parte di questa trasformazione del linguaggio si era realizzata nelle ore stesse in cui il Muro stava cadendo: il rausch consumistico degli orientali li portava attraverso la Budapesterstrasse fino ai centri del desiderio, per ironia chiamati Europa-Center o Magazzino dell'Occidente e infine alle inavvicinabili vetrine del Ku'damm. Per poi tornare indietro carichi di banane e videoregistratori.
La lezione della disfatta di un paese sotto il peso dell'economia è ben chiara a chi l'ha vissuta e più di tutti è chiara ad Angela Merkel. Si può dire che dia forma e convinzione alla speciale politica economica che la cancelliera venuta dall'Est ha imposto agli altri paesi europei. Il debito di un paese con l'estero ebbe infatti un ruolo determinante nella resa del regime di Berlino Est. Quando Egon Krenz subentrò a Erich Honecker come segretario generale del partito, chiese una stima onesta del debito estero della Ddr, un problema di cui il predecessore aveva negato l'esistenza. Dieci giorni prima della caduta del Muro, arrivò la risposta: «La Ddr dipende dal credito capitalista nella misura più grande che sia immaginabile». La fine della sovranità era scritta e a nulla sarebbe servita una repressione violenta. La memoria dei debiti della Germania Est, l'aggrapparsi al mito della D-Mark e la scioccante scoperta della sua arretratezza economica e tecnologica sono rimasti ben impressi nei politici e nei cittadini orientali. Secondo resoconti mai smentiti, in una riunione del Consiglio europeo nel dicembre 2013, Merkel ammonì i colleghi: «Siamo perduti se qualcuno pensa di potersi comportare come sotto il comunismo, io so che cosa significa quando un paese perde competitività fino a cedere la propria sovranità». «Sono diventata adulta in un paese che ha avuto la fortuna che la Germania Ovest l'abbia tratta d'impiccio, ma nessuno farà la stessa cosa per l'Europa». Il Muro aveva vinto.
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