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Questo articolo è stato pubblicato il 11 dicembre 2014 alle ore 07:02.
L'ultima modifica è del 11 dicembre 2014 alle ore 16:10.

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Colpa della Grecia? Colpa della Cina? Colpa del Giappone? O forse colpa dell'Opec e della crisi russa, il cui effetto combinato sta mandando in tilt i prezzi petroliferi, i grandi gruppi energetici e le stesse economie dei Paesi produttori di gas e di greggio?
Dopo tre sedute consecutive di ribassi sui mercati finanziari europei e americani, ognuno sembra avere una buona spiegazione (o forse un buon capro espiatorio) per giustificare le vendite e i fatti che le hanno prodotte.

C'è persino chi attribuisce la responsabilità dell'improvvisa ondata ribassista a una sorta di gioco d'azzardo dei mercati nei confronti delle banche centrali, Fed e Bce: destabilizzando le Borse, le valute e i titoli di Stato più esposti all'avversione al rischio, i grandi investitori globali starebbero infatti cercando di condizionare a proprio vantaggio le scelte divergenti di politica monetaria sulle due sponde dell'Atlantico. Rinunciare al denaro facile, del resto, non è una prospettiva allettante quando ci si è abituati a riceverne senza limiti: con un crollo delle Borse e il ritorno dell'instabilità finanziaria, invece, il mercato potrebbe spingere la Fed a rinviare ulteriormente quel rialzo dei tassi che oggi tutti gli economisti si aspettano, costringendo allo stesso tempo la Bce e l'Europa a rompere gli indugi sugli stimoli straordinari e in particolare sulla necessità e l'urgenza di “quantitative easing” in stile europeo. Anni fa si diceva che la prima regola dei mercati è «Don't fight the Fed», non combattere mai con la politica monetaria: oggi, vuoi per la percezione dilagante di un'assenza di leadership in America, vuoi per il vuoto politico che paralizza l'Europa nella sfida con la crisi, anche la sfida alle banche centrali - vera o falsa che sia - sembra invece diventata possibile.

Di chi è dunque colpa se le Borse cadono? Di tutti e di nessuno, verrebbe da dire: tra gli eventi degli ultimi giorni, infatti, non c'è sostanzialmente nulla che il mercato non si aspettasse già o che lo abbia spaventato al punto di avviare una correzione profonda e globale dei prezzi azionari.
Che la Grecia fosse in difficoltà sia sul fronte della stabilità politica che sul percorso di uscita dal commissariamento finanziario europeo non è una novità. Come non è una novità lo stato comatoso dell'economia russa, o anche i danni provocati dalla crisi Ucraina ai flussi commerciali tra Mosca e l'Occidente, e soprattutto alle imprese europee. Per non parlare del rallentamento della Cina: oggi si parla di grandi incertezze sul passo del gigante asiatico, ma sono almeno due anni che Pechino si confronta con i mercati finanziari e con le banche per gestire in modo ordinato il rallentamento del Pil (che ancora cresce di oltre il 7%) e l'atterraggio morbido dell'economia nazionale. E ad ogni buon conto, i mercati sanno bene che anche mezzo punto di Pil cinese in meno potrebbe essere tranquillamente compensato nel commercio mondiale dalla robusta ripresa economica messa in moto dagli Stati Uniti.

Insomma, anche includendo tra i motivi dei ribassi l'ipotesi suggestiva di un braccio di ferro tra mercati e banche centrali, quanto si è visto sui mercati negli ultimi tre giorni non ha nulla di eccezionale: è solo lo specchio di tutti i fattori di incertezza con cui i mercati convivono ormai da tre anni. Perchè malgrado le promesse del 2011, poco o nulla è stato fatto per rendere l'Europa politicamente ed economicamente più solida e integrata. Poco o nulla è stato fatto per dare un corso più ordinato al mercato valutario. Perchè nulla è stato fatto per affiancare al «bazooka di Draghi» il sostegno e la forza delle riforme economiche e politiche per proteggere l'Europa dalle ondate speculative. In questa situazione, si rischia persino di dover dare ragione a chi temeva - come i tedeschi - che la caduta dei tassi di interesse italiani, greci, spagnoli e portoghesi per effetto della liquidità della Bce avrebbe distorto i mercati e spento l'urgenza delle riforme. Il mercato, questo, lo sa bene. E come abbiamo (ri)visto in questi giorni, sa soprattutto bene come guadagnare sulle incertezze: scatenando paure e utilizzando la volatilità.
È a questo che dovremmo prepararci per i mesi a venire: a un clima di incertezza che rende instabili azioni, valute, titoli di Stato e materie prime. Non a caso, anche nei momenti peggiori del crollo di martedì nessun operatore ha evocato il panico o l'avvio di una grande fuga dai mercati. Basti pensare che malgrado i drammatici crolli della Borsa di Atene, di Shangai, di Wall Street negli ultimi tre giorni, i valori azionari europei e americani restano ancora vicini ai livelli di massimo storico. Per non parlare della Cina: malgrado il crollo di oltre il 5% segnato martedì, la Borsa di Shangai è in rialzo del 35% sui livelli di inizio anno. Non solo. Se la Grecia fosse davvero sull'orlo del baratro e il rischio di un contagio dell'Italia o della Spagna fosse reale e imminente, la seduta di ieri si sarebbe conclusa in stile «blood in the streets», con il sangue sulle strade: invece, Atene ha ceduto solo l'1,5% e Shangai ha addirittura chiuso in rialzo. Questa è la volatilità.

La volatilità, insomma, è ben diversa dalla paura e dal pessimismo, ma non è meno pericolosa. Se il Paese avesse già portato a termine le riforme strutturali su cui prese impegno con l'Europa e con i mercati tre anni fa, oggi i risparmiatori avrebbero meno paura e gli speculatori meno armi a disposizione.

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