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«Hard Brexit» costa alla City 40 miliardi e 70mila posti di lavoro

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l’inchiesta

«Hard Brexit» costa alla City 40 miliardi e 70mila posti di lavoro

C’è voluta la lucidità di un analista del mercato dei cambi per fermare la congiuntura britannica nell’immagine più puntuale. «La sterlina è oggi l’opposizione ufficiale al governo», ha detto David Bloom, chief currency analyst di Hsbc, nelle ore successive al grande crollo del pound sotto i colpi presunti di un algoritmo impazzito. Una storia lastricata di dubbi con vaghe analogie al copione di Money Monster, il film con George Clooney che si snoda attorno allo psicodramma di un crollo in Borsa giustificato dal solito glitch del sistema per spiegare tutto senza, in realtà, dire nulla.

Sulle ragioni ultime del venerdì nero della sterlina il mistero resta fitto, in bilico com’è fra la schizofrenia matematica e una combinazione astrale fatta di transazioni tanto rarefatte da spingere la valuta al tracollo. La dinamica acuta dei 120 secondi che hanno affossato la sterlina si legge nelle regole del flash trading, quella sottostante - riaffermata una volta di più dalla debolezza di ieri della moneta britannica, scivolata a 1,209 sul dollaro - è tutta politica.

Il dibattito Hard Brexit e Soft Brexit occupa il lessico britannico appena liberato dal dualismo Europa-sì\Europa-no. È Europa-no, a tutt’oggi, e non abbiamo alcun motivo di credere che possa cambiare. Meno certa è la posizione del governo britannico in vista della trattativa con Bruxelles, nonostante l’ uscita morbida stia sbriciolandosi sotto proclami nazional-popolari. La premier Theresa May ha messo in fila concetti chiari: l’addio all’Ue sarà gestito dal Governo e non dal Parlamento; l’Europa non rientrerà dalla finestra con intese che consentono la libera circolazione dei cittadini Ue; la sovranità nazionale sarà restaurata con buona pace delle corti europee. Principi appena attenuati da quel «in una trattativa qualcosa si prende e qualcosa si cede». Cosa Londra intenda cedere non è affatto chiaro, che cosa vorrebbe prendersi è il mercato interno senza la libera circolazione dei cittadini. L’”accesso” al single market, quantomeno, principio che qualcuno già differenzia dalla “partecipazione” al single market.

I gradi del possibile divorzio anglo-europeo sono almeno cinque, secondo Raul Rouparel ex co-direttore di Open Europe e oggi advisor del ministro per la Brexit, il fondamentalista anti Ue David Davis. Very hard Brexit: immediato avvio dell’articolo 50, ritorno alle regole commerciali del Wto; hard Brexit: rapida attivazione dell’articolo 50 con accordo minimo di libero scambio sulla riduzione delle tariffe di base, ma totale esclusione dei servizi; Brexit mediana: articolo 50 innescato in sintonia con le esigenze politico-elettorali dei maggiori partner, intesa di libero scambio ampia per beni e servizi e accompagnata da piena cooperazione in esteri, interni e giustizia; soft Brexit: accordo alla norvegese con partecipazione allo Spazio economico europeo; very soft Brexit: la versione morbida, ma estesa all’unione doganale (customs union) a cui Oslo non partecipa.

La customs union – regola le relazioni commerciali con i Paesi terzi ma è aperta anche agli Stati non membri dell’Unione come la Turchia – è divenuto un nuovo terreno di scontro con i falchi del Governo come il ministro per il commercio, Liam Fox, deciso a uscirne per non limitare la libertà del Regno Unito di stringere intese ad hoc con le capitali extra Ue. L’adesione all’unione doganale aiuterebbe la manifattura, ma non i servizi che ne sono esclusi. In altre parole potrebbe indurre i produttori di auto come la Nissan ad ammorbidire la minaccia di congelare gli investimenti in caso di strappo Londra-Bruxelles, ma sui servizi finanziari non avrebbe alcun benefico effetto. Per banking (nel senso più lato), assicurazioni e indotto - ovvero l’ecosistema che la City ha creato - il “ritiro” del passaporto europeo ha un prezzo stellare: 35-40 miliardi di ricavi, 10 miliardi di gettito fiscale, 70 mila posti di lavoro, secondo lo studio della società di consulenza Oliver Wyman per CityUk.

È lo scenario della Brexit dura o molto dura. Lo stesso immaginato dal Tesoro che valuta l’impatto dell’addio al mercato interno - esteso a tutta l’economia, oltre, quindi, i servizi finanziari – in 66 miliardi di minor gettito fiscale, un decimo circa del totale. Proiettato in termini di Pil, nei prossimi 15 anni significa bruciare il 9,5% dell’economia nazionale. Nel caso di un’intesa soft con Bruxelles che veda Londra fuori dalla Ue e magari anche dallo Spazio economico europeo, ma con un passaporto per le banche simile a quello attuale, secondo lo studio di Oliver Wyman, il prezzo per la sola financial industry si fermerebbe a 2 miliardi di sterline, 3-4mila posti perduti, un gettito in calo di qualche centinaio di milioni.

Ipotesi tutte che non tengono conto dell’effetto-tenaglia creato, da un lato, dal divorzio con Bruxelles e, dall’altro, delle politiche post-liberiste e neo-interventiste che l’esecutivo promette di introdurre riconsiderando il ruolo dello Stato in economia. «Theresa May – dice Dennis Mac Shane ex ministro per gli Affari europei nel governo Blair – è il premier a dimensione più insulare degli ultimi ottant’anni. Non ha mai mostrato interesse per la politica Usa o per la Cina, che ha visitato per la prima volta in occasione del G-20. Tuttavia quando i lampi delle conferenze dei partiti si saranno spenti il Parlamento cercherà di riprendere il controllo sul processo Brexit». Il tentativo di un’opposizione trasversale a Wastminster, aperta anche a brexiters scossi dalla piega hard che il governo va annunciando potrebbe trasformarsi in scontro legale fra le Houses of Parliament e Downing Street, a conferma del muro che la signora premier intende porre alle “interferenze” parlamentari.

Hard Brexit non è scelta certa, ma, oggi, è la più probabile, piantata com’ è nei paletti che l’Europa pone a Londra – le quattro libertà del mercato unico non si spacchettano – e nella volontà britannica di recuperare piena sovranità e controllo sull’immigrazione. Peter Mandelson, già commissario Ue per il commercio e grande ispiratore di Tony Blair, è convinto che la soluzione mediana possa passare per la customs union. «Restando nell’unione doganale – ha sostenuto di recente Mandelson – la Gran Bretagna potrà trattare un’intesa bilaterale ricreando elementi del passaporto per i servizi finanziari. Non si può dire ora quali forme di accesso al mercato unico implichino libertà totale di movimento dei cittadini. Chi ha votato Leave, d’altro canto, ha votato per controllare l’immigrazione non per bloccarla».

È lo scenario di un’intesa a macchia di leopardo: unione doganale per i beni, “pezzi di passaporto” per un accesso limitato ai servizi finanziari, in cambio di filtri parziali alla circolazione dei lavoratori Ue. Compromesso probabile? L’unico possibile che Londra ha davanti a sè, qualora l’Ue si dimostrasse magnanima abbastanza e nella piena consapevolezza che, come va dicendo Peter Mandelson, si tratta del «più complesso processo politico mai realizzato in tempi di pace».

Anni, lavoro, danari gettati per un referendum deragliato da un muro di menzogne e che ora andrebbe riformulato *così. «Cittadini del Regno Unito preferite essere più poveri o più ricchi?». L’alternativa fra Brexit dura o morbida è, semplicemente, questa.

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