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Hollywood dentro Hollywood, quando la mecca del cinema racconta se stessa

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Questo articolo è stato pubblicato il 11 ottobre 2010 alle ore 16:20.

Da sempre l'universo cinematografico ha voluto raccontarsi sul grande schermo: soprattutto negli Stati Uniti dove, fin dai primi decenni della storia del cinema, registi e sceneggiatori (ma anche scrittori) hanno cercato di capire meglio la settima arte rappresentandola all'interno delle proprie opere.
Addirittura prima della nascita di Hollywood, David Wark Griffith (che diventerà celebre nella metà degli anni '10 con «Nascita di una nazione» e «Intolerance») realizza nel 1909 «Those Awful Hats», nel quale (in quasi tre minuti di durata) mostra una sala cinematografica dove diversi spettatori non riescono a godersi lo spettacolo perché alcune signore ostacolano la visione con i loro enormi cappelli.


L'anno successivo Hollywood nasce, la sua gigantesca scritta inizia a campeggiare sulle colline di Los Angeles, e il baricentro del cinema mondiale si sposta verso la California: nascerà lo studio system e con esso le convenzioni linguistiche del cinema muto, prima, e di quello sonoro, poi.

Hollywood vivrà (soprattutto negli anni '30) la sua "età dell'oro" ma, proprio in questi anni di successi e gloria, la più importante riflessione sull'universo cinematografico americano non venne impressa su pellicola (fra le poche eccezioni troviamo «E' nata una stella» di William Wellman del 1937) ma sulle pagine di un romanzo: nel 1939 Nathanael West scrive «Il giorno della locusta», satira tagliente sulle ombre (e non più solo le luci dei riflettori) presenti nel sottobosco hollywoodiano, che verrà portato sul grande schermo nel 1975 dal regista John Schlesinger.

Bisognerà aspettare il 1950, e un regista straniero come Billy Wilder, per trovare con «Viale del tramonto» una pellicola che racconti tutta la crudeltà della mecca del cinema attraverso la figura di Norma Desmond, dimenticata diva del muto prigioniera del suo passato. Non a caso a interpretarla fu Gloria Swanson, la cui carriera ricorda direttamente quella del suo personaggio, mentre in ruoli secondari troviamo altre celebrità cinematografiche degli anni '20, come Buster Keaton ed Eric von Stroheim, che con l'avvento del sonoro hanno perso molta della loro notorietà.

L'anno successivo il regista horror William Castle segue la lezione di Billy Wilder girando «I misteri di Hollywood» (in originale «Hollywood Story»), incentrato sulla realizzazione di un film sull'omicidio di un regista del cinema muto.

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Tags Correlati: Coen | Elia Kazan | Eric von Stroheim | Francis Scott Fitzgerald | George Huang | LAFCA | New Hollywood | Paul Morrissey | Stati Uniti d'America | Vincent Minnelli | William Castle

 

Una visione più tradizionale sull'industria dello spettacolo americano ce l'hanno invece in questo periodo i lavori del regista Vincent Minnelli, come «Il bruto e la bella» del 1952 o «Spettacolo di varietà» del 1953.

Sarà però negli anni '70, durante il periodo della New Hollywood e dei giovani registi vogliosi di ribellarsi contro il sistema produttivo precedente, che crescerà esponenzialmente l'uscita di pellicole con al centro la capitale del cinema americano e tutte le sue contraddizioni.

Dennis Hopper, reduce dal grande successo di «Easy Rider» di due anni prima, gira nel 1971 «The Last Movie», opera in aperta polemica con l'industria hollywoodiana, che racconta di un film nel suo farsi, girato non nell'assolata California ma sulle Ande peruviane. In Italia è uscito con il titolo (decisamente esplicito) di «Fuga da Hollywood».

Uscito dalla factory di Andy Warhol, il regista Paul Morrissey nel 1972 dirige invece l'importante «Heat» (una vera e propria satira di «Viale del tramonto»), che ha per protagonista un giovane attore disposto a tutto pur di fare carriera nel mondo del cinema.

Anche il grande Elia Kazan decide di mostrare Hollywood, ma questa volta raccontandone la massima fioritura degli anni '30, con «Gli ultimi fuochi», tratto dal libro omonimo di Francis Scott Fitzgerald, con un indimenticabile Robert De Niro nei panni di un importante produttore.

Negli anni '90 particolarmente significativo sarà «Barton Fink» dei fratelli Coen, su un drammaturgo teatrale di successo chiamato a Hollywood per diventare sceneggiatore; mentre meno noti sono «A che prezzo Hollywood» di George Huang del 1994 e «Cerca distruggi» di David Salle del 1995.

Nell'ultimo decennio il regista che meglio di chiunque altro ha riflettuto sulla mecca del cinema americano è stato certamente David Lynch, sia nel suo ultimo «Inland Empire» del 2006 che (e soprattutto) nel precedente «Mulholland Drive» del 2001.

In questo film, recentemente nominato dalla LAFCA (l'associazione dei critici cinematografici di Los Angeles) il più importante capolavoro del nuovo millennio, seguiamo il percorso della giovane attrice Betty (interpretata da Naomi Watts), giunta a Los Angeles piena di belle speranze, ma che si troverà costretta a svegliarsi presto dal suo sogno di gloria per piombare nell'incubo di trovarsi in un mondo finto, astratto e superficiale. Un (non) luogo dove spesso l'unico segno di concretezza sembra essere una semplice, seppur gigantesca, scritta in cima a una collina.

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