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Questo articolo è stato pubblicato il 05 ottobre 2010 alle ore 14:14.
Domenica scorsa apro il domenicale e vedo qualcosa di inedito: articoli di Luzzatto, Pedullà, Pacifico, De Majo, Ricuperati, Lagioia. Sono persone con cui ho condiviso dei percorsi, sono intellettuali (storici, critici, scrittori, giornalisti, politici della cultura...) che per anni hanno cercato un terreno di confronto comune che non si è quasi mai dato; trovarli tutti insieme per la prima volta dopo tanto mi ha suscitato una reazione ambivalente. Perché, mi sono chiesto, questa non è la normalità da tempo?
Ma soprattutto: perché, da questo e da pochi altri piccoli esempi che si riconoscono in giro, non si potrebbe finalmente cominciare a rimodellare la forma di uno spazio di dibattito pubblico che sia al tempo stesso politico e culturale, e che non avvenga, come al solito, all'interno di nicchie autocompiaciute o autoconsolatorie?
Sarebbe una questione ovvia, se non fosse che in Italia – difficile non accorgersene – siamo invasi da un vuoto. Sono anni che sento i migliori giornalisti, i più interessanti intellettuali italiani, le persone che hanno a cuore il futuro politico di questo paese dar voce a un'unica geremiade che può assumere di volta in volta forme diverse ma ricorsive: non mi riconosco in un partito che non riesce a trasmettermi uno straccio di senso comunitario, scrivo per questo giornale di cui non condivido il progetto editoriale figuriamoci la linea culturale, lavoro per la rivista x perché almeno mi paga due lire, ho messo su un blog come forma di minima resistenza...
Il vuoto è il disagio, la frustrazione, la mancanza di riconoscimento, l'impossibilità del conflitto, gli anni che passano, una generazione immobile. È l'aver a che fare con un meccanismo che potrebbe essere descritto in questi termini: la scelta che oggi si pone a uno scrittore, a un giornalista, a un intellettuale, a un semplice cittadino è questa: come posso vivere, fare esperienza, produrre arte, agire politicamente, ribellarmi, senza che tutto ciò si esaurisca in un gesto ininfluente? Come posso far sì che la mia attitudine critica, l'impegno civile, l'esperienza politica non sia una forma di intrattenimento, di mero consumo culturale, un passatempo come un altro? È il paradosso di Winston in 1984 di Orwell: come posso agire in modo che il mio intervento in una società che controlla la stessa parametrazione della verità sia credibile prima di tutto a me stesso? Quali parole userò, di quale retorica mi posso fidare? Quale pratica sociale avrà una sua efficacia per me e per gli altri?