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Questo articolo è stato pubblicato il 15 ottobre 2010 alle ore 15:44.
In una lettera al fratello Thèo del 1885, Van Gogh, che nutriva per lui una sconfinata ammirazione - dichiarava «è grande come Rembrandt», per la speciale tecnica dei «tocchi di colore posati gli uni accanto agli altri», che «non fanno il loro effetto che a una certa distanza» - e che ne condivideva la poetica, quella di rendere protagoniste dei propri quadri le cose ordinarie, confessava di aver «spesso sperato, per Chardin, di sapere qualcosa dell'uomo».
Se il pittore era stato ampiamente rivalutato dalle testimonianze a suo favore di interpreti del calibro di Gautier, Charles Blanc, Edmond e Jules de Goncourt, il personaggio rimaneva sfuggente. Continuava a guardarci dietro le lenti spesse dei pochi autoritratti rimasti, quello con la visiera e l'altro con una buffa cuffia bianca annodata da un grosso nastro azzurro stretto in cima alla testa, che di lì a poco entusiasmeranno Proust impegnato in quello stesso momento nella riscoperta di Vermeer. Rispetto al primo osservava come il pittore "ci guarda, in questo ritratto, con l'aria fanfaronesca di un vecchio che non si piglia sul serio, che per divertirci o per mostrare che non se ne lascia gabbare, esagera la gagliardia della sua buona salute ancora vispa: «Ah, voi credete di esserci soltanto voi, giovani!».".
Questo pastello straordinario, che per la sua meravigliosa delicatezza non viene fatto viaggiare, risale al 1775, mentre l'altro è del 1779, l'anno della morte avvenuta a ottant'anni. Non finì povero, ma lasciò alla vedova una fortuna stimata in 77.000 livres, la metà di quella di Boucher e comunque molto meno rispetto ai colleghi ritrattisti o pittori di storia, come Largillierre e Rigaud. Evidentemente con le nature morte e le piccole scene di vita familiare non ci si arricchiva come, invece, avveniva con l'acclamato genere storico e i ritratti sempre più richiesti come status symbol.
Bisogna aggiungere poi il fatto che egli lavorava molto lentamente e la sua produzione risulta piuttosto limitata - circa duecento dipinti - pensando a quanto è vissuto. Dipendeva principalmente dalla sua singolare maniera di dipingere così descritta da un contemporaneo: «Egli mette i colori l'uno accanto all'altro, quasi senza fonderli, così i suoi dipinti somigliano un poco a dei mosaici, come i ricami eseguiti a punto quadro». Ma in questo modo era riuscito, rappresentando pesci - la famosa razza che aveva impressionato Proust -, gatti, cacciagione, verdura, frutta, uova, bottiglie, brocche, mortai, pentole di rame, piatti sbocconcellati, bicchieri, cenci da cucina, alternati a sommesse scene d'interni avvolte nel silenzio, a «cogliere la natura sul fatto», con una verità che si rivela «nei più minuti particolari», ottenuta - dichiarò un altro testimone contemporaneo - «con tutta la pazienza dei pittori fiamminghi, mentre il suo pennello ha il vigore di quello di un buon pittore italiano».