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Il gioco: scegliete il vostro evento nella storia della letteratura. Luoghi e date fatidici

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Questo articolo è stato pubblicato il 25 ottobre 2010 alle ore 12:02.

Date e luoghi non sono semplici tacche nel tempo e nello spazio. Sono infatti capaci di estensioni narrative. Si sfili una data: notte del 26 marzo del 1938. La si collochi nello scenario mobile di un piroscafo diretto a Napoli. In una cabina dorme Ettore Majorana. Il giovane fisico non arriva a destinazione. Non si presenta agli appuntamenti. Scompare nella notte. È un fatto. Ma è anche una relazione narrativa. Contiene già un futuro di storie, non ancora narrate.
Negli anni 1956 e 1957 uno scrittore segreto tenta una storia fantastica. Si piega sul foglio bianco.

Scrive una data: 1938. È l'anno in cui, secondo lo scrittore, il cui nome è Giuseppe Tomasi di Lampedusa, il grecista Rosario La Ciura accoglie l'invito della sirena Lighea. Il vecchio professore si è imbarcato sul Rex, che naviga verso Napoli. Ha un appuntamento accademico, come Majorana. E come Majorana non arriva all'incontro. Il professore è salito in coperta. E si è lasciato sedurre dalla creatura marina. Ha raggiunto la sirena in fondo al mare, «dove tutto è silenziosa quiete». La scomparsa di Majorana "anticipa" la scomparsa di La Ciura, sulle acque stregate del golfo di Napoli. Il racconto di Tomasi di Lampedusa narrativizza la verità fantastica di un mistero storico. La vicenda di Majorana e il racconto sono in rapporto di reciprocità.

Una data e un luogo sono diventati uno spazio narrativo, dentro il quale, tra incontri mancati e tracolli psichici, tra realtà e finzione, il caso Majorana si è costituito come archetipo di tutte le scomparse, di tutte le fughe dal mondo, di fisici, matematici, filosofi, economisti, che caratterizzano l'immaginario letterario e cinematografico, non solo italiano, del secolo scorso. E sia detto tra parentesi: la "catastrofe" di La Ciura è preparata, nell'anno 1887, nel cuore del racconto di Lampedusa che ha per cornice gli incontri del professore con un giovane giornalista in un caffè torinese di via Po, dall'abbraccio con una bella "bestia", con una seducente sirena. Stavolta Lampedusa ha "profetizzato", anticipandola di poco, di appena due anni, e dislocandola nel "laggiù" di una Sicilia mitica, la "catastrofe" di Nietzsche che in via Po gettò le braccia al collo di un cavallo. Nella letteratura esistono anche i "plagi" per anticipazione. A volte basta truccare date e luoghi. La letteratura sa come inventare la realtà.

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Cartografia letteraria d'Italia

Facciamo un gioco, scegliete il vostro evento nella storia della letteratura

IL GIOCOScegliete il vostro evento nella storia della letteratura. Il Sole 24 Ore Domenica invita

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Un incontro e fu Scapigliatura

«Uomo totalmente al di sotto di ogni letteratura». Detto di uno scrittore, è forse il peggiore insulto che si possa immaginare. Soprattutto se a pronunciarlo è un critico autorevole come Gianfranco Contini. Il quale ebbe a definire in questi termini il povero Achille Giovanni Cagna (1847-1931), vercellese, autore di poesie, commedie, ma soprattutto romanzi e racconti. Contini si riferiva alla produzione di Cagna prima di un incontro decisivo, quello con Giovanni Faldella (1846-1928). Nativo di Saluggia (oggi in provincia di Vercelli), avvocato, cronista parlamentare e poi senatore, Faldella era scrittore apprezzato da personaggi del calibro di Giosuè Carducci ed Edmondo De Amicis. Cagna – che, senza grandi studi alle spalle, lavorava come contabile nel l'azienda cerealicola di famiglia – conosce Faldella nel 1876.

Per lui questo incontro fu uno di quelli che cambiano la vita. Anzi, potremmo affermare che se Cagna non avesse conosciuto Faldella, oggi probabilmente il suo nome non sarebbe neppure ricordato. Invece il suo romanzo Alpinisti ciabattoni (una delle prime testimonianze, in chiave grottesca, di un nascente "turismo di massa") e la raccolta di racconti Provinciali (uno spaccato dolce-amaro e a tratti feroce su una provincia patetica e claustrofobica) li leggiamo ancora oggi, insieme con le Figurine faldelliane, con interresse per il loro valore documentario, ma anche con il piacere per una lingua vivace e scoppiettante nella sua verve espressionistica. Proprio questo gli insegnò Faldella: un plurilinguismo capace di intrecciare i registri più vari: alto, basso, aulico, dialettale, tecnico, letterario. Come egli stesso riconoscerà: «Forse dall'innesto della mia amicizia data una sua evoluzione letteraria; egli, abbandonando la forma, che dicemmo amorfa, o per dir meglio l'espressione generica, adottò il culto della parola fermentosa; divenne un particolarista del vocabolario; e ciò non credo male, perché alle parole fermentate e distinte corrispondono ribollimenti di idee, concitazioni di affetti».
Dalla frequentazione tra Cagna e Faldella sarebbe nato il ramo piemontese della Scapigliatura. L'allievo Cagna non riuscirà a superare il maestro Faldella. Tanto che Cagna è stato definito «un Faldella in sedicesimo». Ma lo scrittore vercellese si può consolare: Faldella, a sua volta, è stato visto come «un Dossi in sedicesimo». Perché il vero maestro dell'espressionismo scapigliato è il lombardo Carlo Dossi. Tutti gli altri – Faldella compreso – rimangono irrimediabilmente dei minori.

Pasolini ed Eco, due visioni opposte

New York, ottobre 1966: Oriana Fallaci intervista per l'«Europeo» Pier Paolo Pasolini, innamorato dell'America (benché non abbia mai amato la sua letteratura, tranne Melville e Ginsberg!), e poi di quella città «magica, travolgente, bellissima», dei militanti della New Left, della loro ribellione purissima e dionisiaca: li considera da «marxista indipendente» quale si dichiara – «mistici della democrazia», radicali e non-violenti come i primi cristiani. Le racconta di aver assistito a questa scena: mentre sfila un minaccioso corteo di destra, favorevole ai bombardamenti su Hanoi, tre giovani in un angolo cantano canzoni tristi, pacifiste e di protesta. E commenta: «Non un insulto, un gesto di ostilità e questa è la cosa più bella che ho visto nella mia vita. Questa è una cosa che non dimenticherò finché vivo». Poi si mette a parlarle degli intellettuali, di studenti universitari anche scandalosamente ignoranti (non sanno chi siano Rimbaud e Apollinaire!), ma che pure hanno verso la cultura «un rispetto pieno di timore, umiltà». In particolare si sofferma su uno studioso americano da lui incontrato qualche sera prima, coltissimo però timido, «quasi spaventato dalla sua cultura», non «come Umberto Eco, che conosce tutto lo scibile e te lo vomita in faccia con l'aria più indifferente: è come se tu ascoltassi un robot». Mentre un intellettuale americano, per quanto erudito, «non si considera mai padrone della sua sapienza».
Neanche un "sociologo" visionario come Pasolini poteva immaginare che vent'anni dopo Eco avrebbe divulgato il suo "scibile" in personaggi e storie romanzesche che danno brividi culturali a lettori illusoriamente convinti di diventare così "padroni del sapere". Per Pasolini, lucido diagnosta della nuova classe media(infarcita di citazioni), la cultura è invece un fardello, qualcosa che può anche spaventare e che nessuno "possiede", un'interrogazione pericolosamente sospesa sulle nostre esistenze.

Quella «Colonna» ripresa da Vigorelli

La storia della letteratura è fatta anche di incontri mancati o ritardati. Differiti magari di cent'anni. Succede a Manzoni e a quel 1842 in cui a fascicoli esce la Storia della colonna infame. Troppo difficile per i tempi. Troppo nuova anche come impostazione narrativa, tanto da essere definita – oltre un secolo dopo – «romanzo-inchiesta» (Renzo Negri) e «crime story» (Salvatore S. Nigro), finendo regolarmente esclusa dalle riedizioni dei Promessi sposi di cui è parte integrante.
Del resto, per capirne l'importanza bisognava praticare strade inusuali rispetto alla letteratura del tempo. Così la coglie un Carlo Tenca che peraltro del romanzo storico fa un'affettuosa parodia con La Ca' dei cani. E il Giuseppe Rovani alle prese con la dissoluzione del romanzo storico che addirittura inserisce tale e quale il suo saggio sulla Colonna Infame nei Cento anni. Per il resto, quella Storia sta lì, tacita, ignorata. Con tutti attenti a rubacchiare ai Promessi sposi pezzettini di personaggi o situazioni da rimontare dentro personali romanzi storici.
Dorme, la Colonna. Con la sua idea di Giustizia assoluta, da porre sopra lo stesso Diritto che, in quanto legge degli uomini, spesso la sacrifica alla ragion di Stato e a quella «utilità pubblica che fu sempre un pretesto per violar la giustizia». Una Giustizia intesa quale valore supremo che invece la legge dovrebbe (meglio: deve) perseguire, in nome del diritto della "persona" e del singolo, specie se debole. Sta lì, ignorata, la Storia. Sin quando alle coscienze urge qualcosa. E non per nulla è nel 1942 che, in pieno conflitto mondiale, Giancarlo Vigorelli ripropone quella privata inchiesta condotta da Manzoni nella coscienza (sua) e nelle coscienze (di ieri e di oggi) e da lui affidata a un racconto-saggio-interrogazione sì sul manifestarsi in un determinato tempo e luogo (il Seicento, a Milano) del mistero del Male; ma per ribadire attraverso quella vicenda di ieri la perenne irragionevole e imperscrutabile disposizione al Male dell'uomo dotato di libero arbitrio.
Un risveglio, quello della Storia, che non si limita a suscitare riflessioni (Negri, Sciascia). Addirittura si fa modello letterario, con Neri Pozza, Tomizza e altri, ma soprattutto Leonardo Sciascia che nei romanzi-inchiesta rileggono carte processuali spesso siglate da apparati giudiziari «burocrati del Male». Con Sciascia che giunge persino, con L'affaire Moro, a scrivere la sua personale Storia della colonna infame.
Diviene insomma, e finalmente, quell'operetta, a partire dalla intensa Introduzione costituente uno dei vertici etici ed estetici della letteratura (e non solo italiana), qualcosa che chiede anche oggi d'essere letta, meditata e tenuta presente alle coscienze. Proprio perché quel costante richiamo alla responsabilità morale di fronte agli altri dei giudici in quanto uomini e persone interessante l'etica individuale e l'umano (e l'innata tensione al giudizio propria di ogni uomo), che Manzoni avanza attraversando il processo agli untori, va ben oltre il Seicento, giungendo a noi. Perché richiama alla responsabilità morale di ciascuno di noi verso gli altri e verso noi stessi. Al coraggio delle scelte in nome della Giustizia, specie quando sappiamo che quanto ci è ordinato è male. Anche a costo della nostra stessa vita. Per non farci a nostra volta anonimi Burocrati del Male.

Biografia d'autore: i valori che contano

30 aprile 1988. Il ventottenne padovano Giulio Mozzi, impiegato nell'ufficio stampa della Confartigianato del Veneto, è a Roma per un convegno sulle tasse. Avendo un paio d'ore libere, si ficca in una libreria dalle parti della Stazione Termini. Lì trova, e sfoglia, e compera, un libretto intitolato: Trasfigurazioni. È un libretto di poesie, pubblicato da una delle più tremende case editrici a pagamento. Tuttavia a Mozzi le poesie paiono belle, e la sua meraviglia cresce quando si accorge: che il libretto è pubblicato nel 1987; che l'autrice – tale Laura Pugno – è nata nel 1970. «Santiddio», pensa Mozzi, «questa qui ha scritto queste cose a sedici, diciassette anni?». Va alla Sip, recupera i telefoni di tutti i Pugno di Roma (solo otto, per fortuna), telefona finché gli risponde la mamma di Laura Pugno. Un'ora dopo il Mozzi e la Pugno, nel salotto di casa Pugno, fanno conoscenza. Quel giorno Laura Pugno compie 18 anni e decide di fidarsi, con un minimo di cautela iniziale, di questo sconosciuto che le è piombato in casa. Nel corso degli anni Mozzi e Pugno si scambieranno alcune centinaia di lettere.

14 febbraio 1991. Pugno è a Londra (Erasmus). Mozzi fa un salto a trovarla. San Valentino, sia chiaro, non c'entra niente: il viaggio è pagato dalla Cisl. Pugno racconta a Mozzi di aver subìto un furto. Tornato a Padova, nelle sere del 16 e del 17 febbraio, Mozzi scrive il suo primo racconto, Lettera accompagnatoria (nel quale finge di essere l'autore del furto).

3 novembre 1991. A Roma, durante una conversazione su e giù per viale Val Padana, Pugno convince Mozzi a fondare una rivista.
16 dicembre 1991. La rivista è pronta; si chiama L'aimée: è in 40 copie; provvede a spedirla Mozzi da Padova; contiene il racconto di cui sopra e alcune poesie, in italiano e in inglese, di Pugno; 2 copie restano a Pugno e Mozzi; 32 vengono spedite a riviste letterarie in Gran Bretagna, Francia, Germania, Spagna e Stati Uniti d'America; 4 vengono spedite in Italia. Una di queste a Pier Vittorio Tondelli. Pugno e Mozzi non lo sanno – lo scoprono il giorno dopo –, ma quello stesso giorno Tondelli muore.
15 gennaio 1992. Marco Lodoli, destinatario di una delle quattro copie italiane di L'aimée, telefona a Mozzi.

30 aprile 1993. Nel quinto anniversario dell'incontro tra Pugno e Mozzi esce per le edizioni Theoria, dirette da Paolo Repetti, Questo è il giardino, libro d'esordio del Mozzi.

30 aprile 2002. Nel quattordicesimo anniversario dell'incontro tra Pugno e Mozzi iniziano le pubblicazioni della collana Indicativo presente dell'editore Sironi, curata dal Mozzi fino al 2008.

Maggio 2007. Ai primi del mese, mancando per pochi giorni il diciannovesimo anniversario dell'incontro tra Pugno e Mozzi, esce presso Einaudi il romanzo di Pugno Sirene.

30 aprile 2008. Nel ventesimo anniversario dell'incontro tra Pugno e Mozzi, si apre a Reggio Emilia la mostra fotografica di Elio Mazzacane Sirene, ispirata al romanzo di Pugno. L'anniversario viene celebrato con una cena in trattoria tipica. Il cibo (me lo ricordo bene) era tremendo.
Ma: tutto ciò è stato "decisivo per la civiltà letteraria italiana"? Senz'altro sì. L'agire di Mozzi ha dimostrato il valore decisivo della curiosità. L'agire di Pugno ha dimostrato il valore decisivo della consapevolezza del proprio valore. L'agire di Lodoli ha dimostrato il valore decisivo della generosità. L'agire di Repetti ha dimostrato il valore decisivo del coraggio. Eccetera.
Peraltro: pulvis es, et in pulverem reverteris. Nulla è decisivo, se non il disinteresse (solo la polvere è disinteressata).
(E non abbiamo parlato, in questo articolo, del disinteresse di Stefano Dal Bianco, che non si limitò certo a fornire a Mozzi l'indirizzo di Lodoli).


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