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La tranquillità di un cuoco e l'inquietudine di un killer nella maschera di Toni Servillo

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Questo articolo è stato pubblicato il 01 novembre 2010 alle ore 17:32.

Ancora una volta Toni Servillo fa da colonna portante di un film italiano di nuova generazione. Dopo le sue performance in Il divo e Gomorra, La ragazza del lago e il recentissimo Gorbaciof, dopo essersi calato nei panni di Mazzini in Noi credevamo di Mario Martone, Servillo è ora protagonista di Una vita tranquilla di Claudio Cupellini, in concorso al Festival del cinema di Roma, un thriller sui generis ambientato in una Germania asettica e immobile nella quale irrompono come mine vaganti due italiani venuti apposta dalla Campania a minacciare la tranquillità di un cuoco, Rosario, ovviamente Servillo, che dalla Campania era fuggito anni prima.

«Il film parte da un dato di cronaca legato al circuito di smaltimento dei rifiuti», racconta l'attore, che già in Gomorra aveva a che fare con il «problema monnezza». «Ma il cuore della storia è il rapporto fra un padre e i suoi due figli, e fra un uomo e il suo passato. Mi è piaciuto proprio poter raccontare due personaggi in uno: il Rosario che ha lasciato la sua terra, e un passato violento, e quello che si è rifatto una vita all'estero, reinventandosi la vita tranquilla del titolo. Sotto la bonomia del cuoco si nasconde un killer, e allo stesso tempo sul passato da killer il cuoco ha saputo costruire una nuova personalità, più conciliante e disponibile».

Ma non serena, anzi, sempre inquieta. «Ho visto assassini spietati che vivono in un regime di continuo spavento. Temono continuamente che il loro passato li riagguanti, e si nascondono in una serie di tane. Per Rosario, il rifugio sono anche le lingue diverse che parla: l'italiano, il dialetto e il tedesco».

E' stato difficile recitare in una lingua che non conosce? «Solo il 20% del film è in tedesco, e comunque non si tratta del monologo di Faust – non siamo certo in zona Goethe, insomma. La mia unica preoccupazione è stata quella di pronunciare le frasi in tedesco con l'intensità necessaria alle scene, che erano importanti nell'economia del film. Tutti i personaggi della storia hanno una grande eloquenza e forza simbolica, non è stato necessario esagerare nei toni, ma anzi, abbiamo lavorato a sottrarre».

Come sceglie i ruoli da interpretare?

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«Ho molta fiducia nel testo, cui aggiungo la capacità di intuire in un regista un orizzonte artistico e una qualità umana interessanti».
Pensa che questo ruolo le aprirà le porte del mercato internazionale? «Devo dire che alcuni miei film sono già noti all'estero, e di conseguenza mi arrivano sceneggiature anche da altri paesi: ad esempio ho appena finito di girare un film francese, Un balcon sur la mer, diretto da Nicole Garcia».
Le piace lavorare con una regista donna? «Moltissimo, è una delle ragioni per cui ho accettato quel ruolo. Credo che nelle arti sceniche le donne eccellano: pensiamo alla Duse, alla Bernhardt, alla Callas. E in ogni caso credo che le donne siano una guida e un faro, perché hanno una grande intelligenza del cuore e sanno sempre arrivare dritte al punto».

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