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Cultura-Domenica Musica

Il Wagner tragico di Barenboim

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Questo articolo è stato pubblicato il 08 dicembre 2010 alle ore 06:41.

Con un quarto d'ora di applausi finali, lancio di fiori e acclamazioni, in particolare per il direttore Daniel Barenboim, si è conclusa trionfalmente martedì sera la Valchiria (Die Walküre) che ha inaugurato la stagione della Scala a Milano (in scena fino al 2 gennaio). È passata indenne da contestazioni anche la regia avveniristica del belga Guy Cassiers, già definita «la Valchiria della sfera (non della palla) che gira». Una Walkiria che ha al centro Barenboim: dal l'inizio, quando a braccio parla al teatro, citando con fermezza l'articolo 9 della Costituzione, in difesa della cultura, alla fine, quando suggella l'opera con un indimenticabile Incantesimo del fuoco.

È tutto suo questo Wagner, diretto a memoria, il leggio usato solo come deposito di asciugamani, tre bicchieri di plastica pieni di acqua sorbiti a ogni atto, a ristoro, in corsa. È lui il motore dell'opera. Ma con una direzione così, è lui anche il motore dell' intera stagione Scala. Non ci sono dubbi: non è solo scaligero Barenboim, è il direttore principale del teatro. Lo aspetta il prossimo 7 dicembre, 2011: farà Mozart, Don Giovanni.

Oggi Barenboim rilegge la Valchiria in maniera molto diversa rispetto alle sue edizioni precedenti del Ring a Bayreuth, vent'anni fa. Ma anche molto diversa, nella tinta, dall'ultimo Tristano della Scala. Oggi chiede un Wagner scuro, materico, diviso nelle linee cromatiche nei timbri in orchestra. Molto originale, senza precedenti nella memoria. Si vorrebbe dire molto moderno, se il termine non fosse abusato. Certo è una Valchiria che scorre in perfetta sintonia con l'anima di quanto si vede in scena. Dove la regia di Guy Cassiers utilizza a piene mani i linguaggi dell'arte concreta contemporanea: essenziale, con un ampio uso di proiezioni. Non sempre necessarie, specie quando finiscono sulle facce dei cantanti, maculati, o quando creano un intoppo vistoso alla scena del bosco nel secondo atto, che per un problema tecnico rimane illuminato a metà. Il crescendo sul piano delle emozioni è comunque tangibile.

Dunque non consolatoria, non trionfale. Anzi, al contrario, è tragica questa Valchiria. Anche nell'Incantesimo del fuoco, nel finale del terzo atto, che di solito è momento di puro virtuosismo orchestrale, con le sue lame sfolgoranti, Barenboim chiede colori divisi, già Novecento. Non il tradizionale amalgama Ottocento. Aggiungendo da ogni linea un profilo aspro, tagliente, inquieto. Ottenendo dal l'Orchestra uno sfoggio di virtuosismo fantastico: archi, legni, ottoni, arpe, timpani: il cuore di Valchiria batte in buca.

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Tags Correlati: Daniel Barenboim | Ekaterina Gubanova | Guy Cassiers | Incantesimo | John Tomlinson | Milano | Musica | Nina Stemme | Simon O'Neill | Vitalij Kowaljow | Wotan

 

In scena la doppia terna di uomini contro donne vede svettare la Sieglinde di Waltraud Meier, con sempre meno voce, ma sempre più carisma: drammatica, sensuale, volitiva, donna estrema. Chi canta invece straordinariamente è Nina Stemme, una rivelazione (alla Scala): soprano squillante, una Valchiria ragazza, fanciulla, bambina. Magnifica. Con una scolpitura della parola, in gara con la Meier, da consumate attrici di prosa. Intensa, soave e petulante, di mezzi fuori dal comune, riesce a essere anche la brontolona Fricka, moglie sopraffina, interpretata dalla russa Ekaterina Gubanova.

Sul fronte uomini, Simon O'Neill è il tenore wagneriano che da tempo qui si attendeva: eroico ma anche duttile, potente (l'urlo sulla spada nel primo atto resta memorabile, pieno in tutta la sala), tenerissimo nelle mezze voci con la sorella-amante. Abbaia Hunding, John Tomlinson, ed è l'unica nota della compagnia non pienamente positiva. Ma ha una dizione sonora nelle consonanti che comunque resta da lezione. Da veterano, la consegna diretta in mano al pregevole Wotan di Vitalij Kowaljow, debuttante in Scala, ottimo acquisto. Solo l'abito tribal-primitivo non gli dona. Ma il gesto, quando solo con il braccio atterra Hunding, è magistrale. Anche perché è raddoppiato dall'intensità del gesto d'orchestra, in continuo dialogo, intreccio, con il palcoscenico.

Le otto Valchirie restano il momento clou dell'opera: arrivano con una Cavalcata inedita, dal punto di vista visivo: la monumentale teoria di cavalli si sbriciola, esplode, deflagra. Da trionfo diventa Apocalisse. Restano immagini di corpi umani, proiettati sullo sfondo, doppiati da due danzatori, acrobati.

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