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Questo articolo è stato pubblicato il 14 dicembre 2010 alle ore 11:55.
Come fanno quasi due milioni di persone a vivere alle falde del Vesuvio, vulcano in attività più pericoloso d'Europa, in barba ad allarmi ripetuti e a piani d'evacuazione più volte riscritti? Semplice: «rimuovono» il problema negando più o meno consciamente il magma sottostante, considerando quell'increspatura di crosta terrestre niente di più che un paesaggio suggestivo. Un paesaggio familiare, addirittura benevolo.
Se del problema si sono più volte occupati sociologi ed esperti di early warning (si chiama così la disciplina scientifica che punta a prevenire che catastrofi naturali mietano vittime), stupisce il fatto che ora il cosiddetto rischio Vesuvio diventi materia d'arte contemporanea: si chiama «Spyholes» la mostra di Marisa Albanese dedicata al tema in corso a Napoli, nientemeno che al Museo di Capodimonte, fino al 9 gennaio. Il curatore Achille Bonito Oliva allestisce una corposa selezione di fotografie, video e istallazioni che l'artista, napoletana di origine, ha avuto modo di raccogliere dal 2003 a oggi: anni trascorsi proprio sul cratere, in mezzo alla gente che «vive» il Vesuvio fingendo che non sia lì.
Gli «Spyholes» (spioncini delle porte ndr) della Albanese conducono lo sguardo direttamente all'inconscio, alla ricerca di quegli sprazzi di realtà filtrati dall'esterno che progressivamente sbiadiscono, fino a diventare illeggibili e a mutare di significato. Le opere esposte nel Museo di Capodimonte cercano allora di dare spazio e presenza fisica al rimosso, utilizzando l'occhio dell'arte per mostrare immagini che si pongono l'obiettivo di riflettere sulle strategie di immunizzazione in atto nella nostra società, stabilendo un parallelo tra la sparizione del vulcano, non della sua icona, e l'allontanamento dell'artista dalla sua opera e dai suoi luoghi. La realtà che osserviamo è sempre più oggetto di rimozione e così l'evento che c'è di fronte appare illeggibile.
LA MOSTRA
La mostra della Albanese è dominata da due colori, il bianco e il nero. Partiamo da quest'ultimo: si entra in una stanza buia, dove una parete è violata da immagini di lava ribollente. Appena lo spettatore si avvicina alla proiezione, questa si interrompe bruscamente, l'oscurità trionfa sulla luce. «Si tratta di una video-istallazione interattiva – spiega la Albanese – dal forte valore simbolico. Mi premeva esprimere che il modo peggiore per prendere coscienza del rischio Vesuvio è avvicinarsi al vulcano. Quando vivi il cratere, per continuare a vivere hai bisogno di fingere che non ci sia. Si tratta di un curioso processo di immunizzazione – continua l'artista – attraverso il quale l'uomo si illude di sconfiggere il male negandolo. Ma purtroppo il male resta lì dov'è». Andiamo al bianco: una stanza spoglia di Capodimonte raccoglie fotografie del vulcano, ammassate le une sulle altre.