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Questo articolo è stato pubblicato il 22 gennaio 2011 alle ore 12:48.

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A vent'anni dal debutto di "Palermo, Palermo", Pina Bausch è un monolite radioattivo che continua ad emettere onde. Nella foto un momento dello spettacolo Vollmond, in prima nazionale al Piccolo di MilanoA vent'anni dal debutto di "Palermo, Palermo", Pina Bausch è un monolite radioattivo che continua ad emettere onde. Nella foto un momento dello spettacolo Vollmond, in prima nazionale al Piccolo di Milano

Quel muro di mattoni che, ad apertura di sipario, chiude tutta la scena e crolla di colpo a pezzi coprendo quasi tutto il palcoscenico, è un'immagine che non si dimentica. Forse stava ad indicare l'abusivismo edilizio, o una Palermo che, all'epoca, voleva uscire dall'isolamento, che rompeva l'omertà, o che sprofondava ulteriormente nel degrado. Forse questo ed altro ancora. Di sicuro, anche adesso, aleggia il senso di una città offesa, sedotta e degradata, ma sempre vitale. Dove brulica di tutto. Perché quelle macerie di mattoni traforati non impediscono di camminarci coi tacchi a spillo e correrci sopra.

Fa un certo effetto assistere allo spettacolo "Palermo, Palermo" a Wuppertal, cittadina al centro della zona più industrializzata della Germania, regno incontrastato dell'amata Pina Bausch e della sua Compagnia che qui continua a lavorare anche dopo la scomparsa della sacerdotessa del tanztheater che tanto ci manca. Quel mondo monocolore, di calma piatta, di fredda latitudine, di ordinata urbanistica, inevitabilmente contrasta con le tinte calde, i cieli azzurri, il traffico maldicente, il caos imperante del capoluogo siciliano. Distanze siderali li separano. Eppure quella creazione, così legata ad un luogo fisico, nata più di vent'anni fa su commissione dell'allora sindaco palermitano Leoluca Orlando, continua a unire mondi differenti, a filtrare sentimenti universali, a emozionare oltre le differenze.

Ci sono tutte le durezze bauschiane in questo notturno e pessimistico spettacolo, luogo del sentire della coreografa che vi soggiornò con i suoi "danzattori" per rintracciarvi immagini, impressioni e riflessioni, secondo un metodo di lavoro che ha gemmato una moltitudine di altre "cartoline" sulle città del mondo. È inutile però rintracciare una Palermo esplicita, descrittiva o aneddotica, e stabilire cosa è tipico della città e cosa non lo è. Ognuno può vedervi ciò che vuole. Si potrebbe alludere – e alcune sequenze sembrano evocare immagini precise - alle vedove della mafia, alla ribellione femminile, alla violenza sui corpi, alle icone popolari di Santa Rosalia, agli scheletri vestiti appesi nella cripta dei Cappuccini, al malavitoso sempre in agguato con la pistola in mano che qui è una donna col viso coperto da una calza di nylon. Non c'è una trama. Si susseguono immagini senza uno sviluppo narrativo, ma che determinano emozioni, angosce, sensazioni, paure, ansie, verità. In tre ore di teatro, spezzate da improvvise espressioni di danza, c'è tutto il vocabolario – scenico e contenutistico – della Bausch: i travestimenti, le smorfie, le sfide, le esibizioni, lo spogliarsi e rivestirsi, le passerelle sui tacchi, i tavolini tondi, il rivolgersi alla platea offrendo qualcosa, la confusione dei sessi, le solitudini maschili e femminili, il gusto beffardo del cabaret tedesco. Ravvediamo una cultura pigra e matrigna, presa nei singhiozzi di un canto antico, nelle cupe processioni ritmiche che evocano rituali di penitenza mediterranei, pervasa da un senso di morte. Dove, però, quello che conta è la geografia del cuore.

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