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Questo articolo è stato pubblicato il 11 marzo 2011 alle ore 08:23.

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Furbi, fessi e cortigianiFurbi, fessi e cortigiani

Centocinquant'anni dunque. Ma di chi? Dell'Italia pare difficile, perché un secolo e mezzo fa l'Italia non c'era mancando all'appello Mantova, Veneto, Lazio e soprattutto Roma, la futura capitale dove proprio quel 17 marzo 1861, nelle ore in cui il Parlamento incoronava Vittorio Emanuele, un altro re ben più importante recitava una dichiarazione di guerra. Si chiamava Pio IX e dal soglio di Pietro chiamava a raccolta i cardinali contro il neonato stato «che accoglie nei pubblici uffici gli infedeli, apre ai loro figli le pubbliche scuole dando libero varco alla miscredenza».

Tra una settimana sarà il compleanno degli italiani allora? Anche questo è strano perché ammesso che gli italiani ci siano oggi di certo non c'erano allora. Basta rileggere i moti del 1848-49 per dar ragione a Roberto Benigni: contro l'Austria non insorse un popolo ma gruppi sparpagliati d'individui eccentrici. Studenti appassionati, avventurieri cadetti, mistici esuli, intellettuali disorganici. Minoranze insignificanti che vedevano la Patria come una divinità illuminista, che avrebbe risolto i mali di sempre ma che chiedeva in cambio il sacrificio più alto.
Erano le teorie dell'esiliato genovese Giuseppe Mazzini, che dai salotti londinesi risolveva l'atavica "questione sociale" in quella "nazionale" sorseggiando tè al limone davanti a ladies estasiate. Pura follia per Giuseppe Ferrari, solido avvocato milanese che era andato a insegnare filosofia a Strasburgo dopo aver combattuto e litigato con i patrioti. Ne La federazione repubblicana Ferrari sosteneva che nessuna riforma statale era possibile prima di una profonda riforma sociale, a partire dal caporalato, la manomorta e le innovazioni agrarie che avrebbero finalmente sfamato il popolo. Solo con la pancia piena gli italiani potevano riconoscersi e decidere se e come lottare assieme.

Come spesso accade da noi alla fine passò un'altra linea, quella del geniale quanto cinico Camillo Benso conte di Cavour il cui unico appetito insoddisfatto fu per le donne. Diversamente da Mazzini e Garibaldi, con cui si seguita ad accostarlo, Cavour non fu mai un generoso patriota né fautore dell'unità come mistica civile. Pragmatico sommo, Cavour era consapevole che le differenze di carattere, storia ed economia delle varie popolazioni italiche erano incolmabili, rendendo l'unità impossibile o al massimo formale. Nei suoi progetti così l'Italia sarebbe sempre rimasta lo strumento politico del Piemonte, che avendola conquistata aveva il diritto di usarla. Cavour si rallegrò quindi quando Liborio Romano, un deputato al primo parlamento unitario che era stato ministro dell'interno di Francesco II, gli fece la cronaca dell'evoluzione delle massime istituzioni finanziarie dell'ex Regno di Napoli, la Cassa di Sconto e il Banco Partenopeo. Utilizzando un sistema di leve vietate e irregolarità amministrative, Torino in un solo anno aveva incamerato circa 80 milioni di lire girandone al Sud soltanto 39.062.507. Il programma stava funzionando.

Fra i numi tutelari del pantheon unitario c'è Massimo D'Azeglio, anche lui piemontese, cavouriano di ferro e ovviamente marchese. Raramente però si ricorda che il politico, romanziere e raffinato vedutista D'Azeglio era diffidente dell'unità, scettico sullo spostamento della capitale a Roma e del tutto convinto dell'impossibilità di costruire un unico popolo. Se nelle memorie ufficiali scrisse la celebre frase «fatta l'Italia bisogna fare gli italiani» in una contemporanea memoria familiare chiariva con precisione il concetto: «Unirsi ai napoletani è come andare a letto con un lebbroso». Furbizie? Individualismo? Doppia morale? Evasione fiscale e sfrenatezza sessuale? Nel bene o nel male sono il "carattere nazionale" dalla fine del Sacro Romano Impero, come racconta Giovanni Boccaccio che finalmente libero dall'idealismo di Dante e dagli psicologismi di Petrarca realizza la prima presa diretta sugli italiani. Un non-popolo di mercanti truffatori e contadini gabbati, mogli sifilitiche e mariti prostatici, religiosi analfabeti e tutti quanti ossessionati dal sesso. Un ritratto che Giuseppe Prezzolini aggiornava sette secoli dopo tratteggiando la fisionomia del fesso: «Se uno paga il biglietto intero in ferrovia; non entra gratis a teatro; non ha un commendatore zio, amico della moglie e potente nella magistratura, nella pubblica istruzione, eccetera; non è massone o gesuita; dichiara all'agente delle tasse il suo vero reddito; mantiene la parola data anche a costo di perderci; ecc. questi è un fesso». Eccola l'Italia di sempre, un paese diviso tra furbi e fessi in cui però, per la legge degli opposti di cui parlava l'economista Sergio Ricossa «i furbi sono dei disonesti che si dichiarano onesti; coloro che si dichiarano onesti raramente lo sono. I fessi di Prezzolini sono onesti che, per pudore o modestia, nascondono o ignorano di esserlo».

Le ultime vicende del Pio Albergo Trivulzio lo confermano. Farsi furbo e dissimulare sono l'insegnamento principe della pedagogia italiana, la cantilena ripetuta a ogni figlio — e oggi soprattutto figlia — perché sappia rovesciare in opportunità le insidie della vita. Senza crucciarsi che "furbo" viene da una parola francese che significa piccolo taglieggiatore, borseggiatore da autobus. Anche perché in fondo chissenefrega?, come recita l'altro leit motiv nazionale. Dal Libro di buoni costumi di Paolo da Certaldo alla Dissimulazione onesta del napoletano Torquato Accetto, dal Principe di Machiavelli al Cortegiano di Castiglione, da I Ricordi di Guicciardini alla biografia di Casanova e Mussolini giù giù fino alle intercettazioni delle varie Minetti la furbizia è la base dell'educazione personale e il vero progetto civile. «Bisogna sempre ricordarsi che le volpi vincono su lupi e leoni», diceva Machiavelli. Dunque «dire bene di que' che reggono il Comune e degli altri però non dire male, perché un giorno potrebbero conquistarlo e non t'avrebbero per amico». La degenerazione del sistema politico, la piaggeria cronica, i mercimoni a base di soldi e sesso sono cosa antica in Italia se addirittura Poggio Bracciolini, uno dei simboli Rinascimento, scriveva: «Gli uomini gravi, prudenti, modesti, non hanno bisogno delle leggi. Respingono e prezzano le leggi, adatte ai deboli, ai mercenari, ai vili, ai miserabili, ai pigri e a coloro che non hanno mezzi. Infatti tutte le imprese egregie e degne di ricordo sono nate dall'ingiustizia e dalla violenza, e insomma dalla violazione delle leggi».

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