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Questo articolo è stato pubblicato il 14 marzo 2011 alle ore 12:21.

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Il correttore che non è automaticoIl correttore che non è automatico

Siete un autore alle prime armi. Avete pensato, dopo tanta fatica e tante esitazioni, che il testo sul quale lavorate, magari anche duramente, da anni finalmente è pronto. Vi decidete di inviarlo alla casa editrice, lo mandate a leggere a un amico fidato, sondate la possibilità che qualcuno che non sia della vostra cerchia possa dare una lettura professionale al vostro manoscritto. Bene. Siete pronti a imbattervi nell'Assioma Fondamentale di Tutti i Testi Scritti: il vostro testo non va bene! Ci dovete lavorare, ci dovrete lottare a lungo, e non è detto che vinciate voi; il cestino ha armi molto potenti che arrivano direttamente alla vostra coscienza.

Non spaventatevi, però, né scoraggiatevi. Siete in ottima compagnia e ciò di cui avete bisogno non è altro che... editing! Ossia il giudizio e l'opera di un professionista della scrittura e della lettura che individui punti deboli, incongruenze, frasi fatte, sciocchezze vere e proprie, inesattezze di vario tipo: non temete, perché la vostra voce, se c'è, verrà fuori comunque; e anzi: in molti casi verrà fuori solo dopo che avrete subito una salutare dose di editing.

Il caso di editing più famoso della storia, lo vedete in queste pagine, dovrebbe, del resto, rinfrancarvi. Thomas Stearns Eliot, nel 1921-22, va redigendo quella che sarebbe diventata l'opera poetica capitale del Novecento inglese (e non solo). Durante una delle stesure, quella che a lui sembra possa andare, la affida a un altro gigante della poesia: l'amico Ezra Pound. Che gliela massacra senza pietà e gliela migliora in modo sublime. Tanto che Eliot dedicherà The Waste Land proprio a Pound, con una citazione dantesca: «Al miglior fabbro».

Non è raro, del resto, vedere che un autore dedichi l'opera che finalmente va in stampa con il suo nome ben scritto in copertina a chi, materialmente, ha fatto da levatrice per il testo, lo ha reso degno di venire al mondo. Solo per restare a casi recenti, possiamo citare Stefano Benni che dedica, commosso, Elianto a Grazia Cherchi, una delle editor più celebri della letteratura italiana contemporanea: «un'amica che non c'è più, e che fino all'ultimo mi è stata vicina in questo libro come in tutti i miei libri con i suoi consigli, la sua allegria, la sua intelligenza» e, pescando tra le novità in libreria, Luca Bianchini, il cui recente Siamo solo amici è per Joy, editor interna di Mondadori.

Ecco: il nome di Grazia Cherchi, almeno in Italia, è uno spartiacque decisivo per la pratica e la percezione esterna del lavoro dell'editor, che, tutto sommato, resta quasi sempre una figura oscura della macchina editoriale, sovrastato da autore, editore e, a volte, traduttore. «Lavorava con pochi scrittori, Grazia – ricorda uno scrittore e oggi dirigente editoriale come Antonio Franchini –. E se li sceglieva lei. Selezionava in base a caratteristiche di stile dell'autore, certo, ma anche e soprattutto in base a caratteristiche umane. Il suo era un editing artistico, ma oggi un atteggiamento come il suo sarebbe impensabile. Io ho avuto la fortuna anche di vedere fare editing a un poeta come Raffaello Baldini, altro straordinario personaggio. Erano esponenti di un editing invasivo: in qualche modo, si spendevano su ogni singola riga, su ogni singola parola. Ma ho visto anche dei testi lavorati da vecchi redattori einaudiani; piccolissime modifiche sul testo, una virgola, una posizione di parola: interventi minimi eppure fondamentali».

Franchini, che è stato a lungo il decisore finale sui testi della letteratura italiana del più grande editore del paese, la Mondadori, ha oggi una degna erede in Giulia Ichino. «Bravissima e preparatissima, come molte sue colleghe. Anche perché oggi è molto più complesso fare l'editor di quanto non succedesse solo venti anni fa». Già. Cosa è successo?

A parte l'aumento esponenziale del numero di manoscritti da valutare, si è elevato anche il livello medio dei testi degli aspiranti scrittori. Un punto di vista che accomuna editor di lunga data come Franchini e Alberto Rollo, espertissimo cacciatore di testi per Feltrinelli. «Sono più professionali, le nuove generazioni di editor, e io segnalo volentieri il lavoro che sta facendo con me in Feltrinelli, Carlo Buga. Poi ciascuno interpreta l'editing in maniera leggermente diversa: chi è più invasivo, chi si limita a vedere se c'è il testo o se non c'è». In generale, però, non solo è cresciuta l'attenzione mediatica sulle pratiche di costruzione del libro (e prova ne sia che un intero festival come il riuscitissimo «Libri Come» dell'Auditorium di Roma sia interamente dedicato a questi argomenti), ma anche da parte degli autori c'è maggior rispetto su quello che Rollo chiama «non il lavoro di editor ma "lo sguardo di un altro"». Gli autori non solo accettano di buon grado l'editing ma, spesso, lo richiedono «e se la casa editrice non glielo offre – sorride Rollo – pensa che ci sia qualcosa che non va».

«A volte gli editor salvano i libri – spiega Matteo Codignola, direttore editoriale di Adelphi – ma a volte li sfigurano. In compenso, quasi sempre si lamentano: della paga (scarsa), della visibilità (idem), degli editori (inetti), degli autori (idem). Non è colpa loro, tuttavia, ma di un sistema ambiguo, che a volte fa rimpiangere quello precedente. Dove l'editore (con la -e finale) trattava con gli autori, faceva i suoi conti, e alla fine decideva se comprare o no un certo libro: affidandolo, da quel momento in poi, ai redattori, che non si sentivano ancora oltraggiati dalla qualifica. Quanto ai libri, si dava un'aggiustatina alle magagne – ma se ti erano arrivati sul tavolo, significava che non ne avevano poi molte». Una posizione, quest'ultima, che Vincenzo Ostuni, oggi editor per Ponte Alle Grazie, dopo aver girato altre case editrici, sembra condividere. «L'editing, per quanto mi riguarda, è una specie di male necessario, quando va bene, ma lo si deve fare per libri che siano strettamente necessari. È un mestiere che normalmente appiattisce e fa male ai libri, ma quando decido di pubblicare un libro la mia prima preoccupazione è quella di salvaguardare l'eccentricità dell'autore, non piegare verso l'appiattimento sulle aspettative del mercato. Lo considero un dovere etico».

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