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Questo articolo è stato pubblicato il 13 marzo 2011 alle ore 08:19.

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Il nostro problema con le rivoluzioni in corso nel mondo arabo si chiama progresso. Non petrolio, né libertà, né flussi commerciali ma ideologia del progresso. La nostra ultima e grande narrazione novecentesca, ormai malandata e incapace di farci pensare con speranza a quanto accade fuori da qui. Perché nel modo in cui guardiamo alle piazze di Tripoli, Tunisi e del Cairo c'è qualcosa di più minaccioso del timore di rimanere senza benzina. Qualcosa che va oltre l'incertezza sugli esiti finali di quei rivolgimenti, oltre l'inquietudine per lo spettacolo della violenza o l'incognita del fondamentalismo islamico. È la paura di guardarsi intorno per scoprire che non siamo più noi a dare il ritmo del movimento storico. Si dice che sia anche una questione di autostima democratica: la salute delle democrazie occidentali non è più quella di una volta, strette come sono tra la perdita di sovranità che viene dalla globalizzazione e l'insorgenza di nuovi populismi, e il loro deludente tono muscolare non permette alcuna esaltazione per quanto accade nel Mediterraneo meridionale. È una tesi non priva di sostanza, ma un facile confronto storico complica le cose. Anche tra il 1989 e il 1991, nel biennio che vide crollare il comunismo europeo, le democrazie non potevano considerarsi al massimo del fulgore. Milioni di elettori di affiliazione comunista (e talvolta molti milioni, come in Italia) erano per definizione esclusi dall'accesso al governo, mentre la crisi dei sistemi di welfare costruiti nel secondo dopoguerra complicava i confini della cittadinanza sociale. Eppure vent'anni fa la fine del socialismo reale aprì una lunga stagione di orgoglio democratico. Fu il sollievo per la mancata resa dell'Europa di fronte alla minaccia sovietica, che non era sembrata un'ipotesi tanto peregrina per buona parte degli anni Settanta. Fu l'effetto della riapertura del cantiere comunitario verso le nuove democrazie orientali, così come la soddisfazione statunitense per la possibilità di incassare finalmente i frutti della rivoluzione reganiana. Ma fu soprattutto la percezione che il flusso del progresso mondiale fosse tornato in mani sicure. Naturalmente un'ideologia, declinata anche in versioni estreme come nel caso della fallimentare profezia della "fine della storia". Ma fu in ogni caso una percezione che definì il nostro spirito pubblico per un intero decennio, facendo del progresso l'ultima delle formule magiche del Novecento e l'unica in grado di contaminare per un lungo tratto storico le culture politiche di destra così come di sinistra.
Progressisti sono stati ovviamente gli eredi del socialismo, che hanno assunto anche formalmente quella denominazione come un cappello che permetteva di tenere insieme identità politiche molto distanti. Il progressismo è stato l'unico terreno sul quale si sono trovati fianco a fianco post-comunisti e post-socialdemocratici, reduci dal l'esaurirsi delle loro diverse strategie e alla ricerca di nuovo carburante ideale nel quale si tenessero crescita economica e redistribuzione sociale. Sviluppo e giustizia, innovazione e coesione, ricchezza ed eguaglianza: coppie di ossimori che hanno fatto la storia del clintonismo negli Stati Uniti e quella della Terza Via in Europa, anche fuori dai confini della Gran Bretagna di Tony Blair, e il cui mastice ideologico era una luminosa idea di progresso e una tenace fiducia nel futuro. Ma progressisti sono stati persino i conservatori, che in Europa ma soprattutto negli Stati Uniti hanno reinventato la propria identità all'insegna del mutamento dinamico della realtà. Non fu certo il trionfo della conservazione la stagione dei Neocon, con le loro illusioni e la loro carica eversiva nei confronti di una realtà che doveva essere modificata per non soccombere alla minaccia del fondamentalismo. L'ideologia di Bush fu anch'essa sorretta dalla fiducia nel progresso: con un segno del tutto diverso dalla sinistra europea o clintoniana, ma nondimeno un orizzonte da perseguire con la convinzione e l'ottimismo di chi credeva di poter controllare la direzione del movimento storico.
Oggi la nostra fatica nel concedere la patente di "rivoluzioni della libertà" agli avvenimenti che stanno cambiando il profilo del mondo arabo nasce anche da qui. Dall'esaurirsi di quella fiducia e dalla scomparsa del progresso dall'orizzonte delle culture politiche occidentali, nessuna esclusa. Non fa eccezione il magico mondo di Obama, la cui forza è nella promessa di stabilizzazione e riparo dagli scossoni che l'amministrazione Bush aveva impresso agli Stati Uniti in politica interna e internazionale. Non sia mai che ci si spinga a dipingere Obama come il contrario di un progressista. Ma come scrive un lettore della «New York Review of Books» al filosofo Thomas Nagel, che aveva recensito le riflessioni autobiografiche di Tony Judt appena riunite nella raccolta postuma The Memory Chalet (Penguin Press, pagg. 240) sottolineando lo stupore dello storico nel vedersi «incoerente perché al contempo progressista ed elitario»: «È il momento di guardare da vicino il tormento dei progressisti nati intorno alla metà del secolo che sono stati costretti dalla generazione successiva a riconoscere che le loro migliori intenzioni erano profondamente confuse... e hanno finito per fare il gioco della borghesia». Un paradosso che potrebbe calzare anche sul profilo scelto da Obama in quest'ultimo biennio di amministrazione, da forza di progresso a motore di stabilizzazione per difendere dalle nuove insicurezze interne e internazionali i propri riferimenti sociali ed elettorali.

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