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Questo articolo è stato pubblicato il 13 marzo 2011 alle ore 08:20.

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L'invasione dei vampiri, letterari e cinematografici, è stato uno dei tratti più inconfondibili della cultura popolare del decennio che si è appena concluso. Twilight, True Blood, Buffy the Vampire Slayer: soprattutto per coloro che si sono affacciati all'adolescenza alla svolta del secolo il vampirismo si è fatto metafora principe di quel misto di paura e di attrazione con cui i cuccioli dell'uomo si avvicinano alla sessualità. È possibile che altri mostri, capaci anch'essi di dare una rappresentazione concreta alle nostre apprensioni, si annuncino già all'orizzonte – a cominciare magari da quegli zombie, così adatti a mettere in scena un mondo sovrappopolato nel quale gli altri incarnano una minaccia unicamente per il loro numero. Eppure, oggi, è ancora lui – il vampiro, rivitalizzato dai dieci milioni di copie della saga di Stephenie Meyer – a regnare incontrastato sugli incubi contemporanei.
Di questi vampiri (per adolescenti e non) tutto si è detto e tutto crediamo di sapere. Leopardianamente, «Fratelli, a un tempo stesso, Amore e Morte / ingenerò la sorte». Non è stato sempre così, in fondo? Già nel 1970, in uno studio ormai classico sulla letteratura fantastica, Tzvetan Todorov ipotizzava che nella cultura ottocentesca il soprannaturale servisse precisamente a dare sfogo a una serie di pulsioni erotiche «irregolari» che la società non tollerava fossero rappresentate in forma diretta.
Un saggio appena uscito negli Stati Uniti arriva oggi a scuoterci da queste certezze. Lo firma uno dei più promettenti comparatisti americani dell'ultima generazione, il poliglotta Erik Butler, e si intitola Metamorphoses of the Vampire in Literature and Film. L'assunto da cui muove Butler, che sotto la sobria veste accademica ha scritto in realtà un libro estremamente godibile e che si vedrebbe bene tradotto in italiano, è molto semplice: invece della psicoanalisi e degli studi di genere, la figura del vampiro guadagna a essere letta piuttosto con gli strumenti della storia e della geografia (qui esplicitamente sulla scia dei lavori di Franco Moretti).
Un titolo più accattivante, ma non meno adatto per queste pagine, sarebbe stato forse Il vampiro: una storia politica. Cominciamo allora dalla pars destruens. Non è vero, come sostenevano gli studiosi di folklore nell'Ottocento e i discepoli di Jung nel Novecento, che vampiri si trovano in ogni cultura e in ogni tempo. L'ossessione per il vampirismo ha una data di inizio ben precisa, esattamente come le sedute spiritiche, la festa di San Valentino e il costume bianco e rosso di Babbo Natale: il 1725, se consideriamo il primo documento di un ufficiale austriaco nel quale si racconta delle superstizioni delle popolazioni serbe sul ritorno dei morti, o il 1732, se invece ci riferiamo all'anno in cui una lettera analoga, sempre redatta da un ufficiale medico del corpo di occupazione, cominciò a diffondere per l'Europa la paura di un nuovo mostro dopo essere stata ripresa con grande risalto dalla stampa di lingua tedesca.
Butler ha gioco facile a dimostrare che da allora i vampiri hanno assunto le forme più diverse, compresa quella del seduttore, che non è affatto la principale anche se è su di essa che l'attenzione si è prevalentemente concentrata. Alla fine un solo tratto sembra accomunare davvero tutti i vampiri: l'incertezza sulla loro identità. Chiunque ha visto qualche Dracula o Nosferatu cinematografico sa che da un certo momento uno dei punti di forza della storia sarà l'impossibilità di sapere esattamente chi è già stato contagiato. I vampiri sono tra noi, ripetono romanzieri e registi: anche se il loro potere di seduzione non è necessariamente di natura sessuale. Butler evidenzia anzi come, sin dall'origine, caratteristico del vampiro sia piuttosto uno sconfinamento geografico e sociale. Per i Serbi del Settecento questa paura del nemico interno, che sembra un membro della comunità ma che in realtà è un morto che si nutre del sangue dei vivi, era strettamente legata all'insicurezza di un popolo diviso tra le diverse entità statuali che si contendevano i Balcani: un popolo, abituato a fare i conti con la figura del rinnegato, pronto ad abbandonare la cristianità per l'Islam e viceversa, a seconda delle convenienze del momento. Ma, anche dopo, la capacità di mascherarsi e di infiltrarsi è rimasta un tratto inconfondibile del vampiro. Secondo Butler non è affatto un caso che gran parte dei maggiori narratori di vampiri abbiano avuto alle spalle una esperienza di «emigrazione interna», dall'irlandese Bram Stoker alla mormone Stephenie Meyer.
Il vampiro obbedisce a un preciso immaginario geografico, che colloca le radici del male in un'esotica Europa dell'Est. La minaccia, in altre parole, è quella di una vera e propria invasione. Qui l'autore cala l'altra sua carta decisiva. Perché questa immediata fascinazione per la figura del vampiro nell'Occidente più sviluppato? Secondo Butler la travolgente diffusione dei non-morti dai canini affilati nell'immaginario europeo è strettamente legata alle apprensioni del mondo messo sottosopra dalla Rivoluzione francese e dalla Rivoluzione industriale. Anche se il vampiro appare sulle scene come un essere antichissimo e addirittura ancestrale, il suo successo sarebbe legato insomma alla capacità di dare voce alle più profonde insicurezze del mondo moderno, in cui i posti degli individui non sono più stabiliti una volta per tutte dalla nascita e la forza di trasformazione del Capitale sembra non conoscere ostacoli. Lo stesso vampiro, infatti, è un trasformista e un essere del cambiamento, con i suoi incerti titoli nobiliari e le sue credenziali sempre un poco sospette. Ma proprio perché compendia in maniera così perfetta le ansie generate dal crollo dell'Antico regime esso riesce a nominare la minaccia solo a patto di proiettarle all'esterno, su uno straniero e arcaizzante aristocratico dei Carpazzi.

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