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Questo articolo è stato pubblicato il 20 marzo 2011 alle ore 08:22.

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A Roma per celebrare Joseph Brodsky, una squadra di scrittori e poeti capitanati dal caraibico Derek Walcott, premio Nobel 1992. L'avvenimento ha luogo in due momenti, alla John Cabot University e all'American Academy dove Walcott sarà poeta in residence per il prossimo mese e dove Brodsky lo è stato nel 1981. Giusto trent'anni fa. Per una singolare coincidenza l'omaggio a Brodsky (Nobel 1987) inizia nel giorno in cui si celebra il 150esimo anniversario dell'Unità d'Italia, e anche all'ingresso dell'Aula Magna dove si susseguono sul podio gli illustri ospiti (da Roberto Calasso a Boris Khersony e da Mary Jo Salter a Mark Strand, fino allo stesso Walcott e ad Adam Zagajewski) è esposta la bandiera tricolore. Siamo, per così dire, in territorio americano, ma la cosa non è fuori luogo. Brodsky amava questo Paese, ne ha scritto a lungo e ne ha parlato a Walcott all'infinito. Ma insieme in Italia non sono mai venuti. Perché – e anche questa è una curiosa coincidenza – l'anno in cui Walcott arrivò per la prima volta è lo stesso, il 1996, in cui Brodsky morì ad appena 56 anni.
Walcott e Brodsky si incontrarono per la prima volta a Boston nel 1977 al funerale di Robert Lowell. Seduti nello stesso banco della chiesa, si guardarono senza parlare ma ebbero lo stesso pensiero: «Se lui non piange, non piango nemmeno io». Sarebbero diventati fratelli per sempre.
La storia della loro amicizia è qualcosa di cui non sono stato testimone perché Brodsky non l'ho mai incontrato, e che tuttavia ha pervaso il quarto di secolo che è passato da quando ho conosciuto e poi frequentato Walcott. E non tanto perché di lui mi abbia parlato a lungo, quanto, al contrario perché il suo nome nel corso di una conversazione su tutt'altro argomento, o durante un viaggio, a cena o a colazione – insomma in una qualsiasi circostanza – è sempre saltato fuori all'improvviso, e magari senza che la cosa avesse un seguito. Come se Joseph fosse ancora lì. Presente in ogni momento, pronto per essere evocato. E poteva trattarsi di un verso o di una battuta; di una spiritosaggine oppure, ancora dopo quindici anni dalla scomparsa di Brodsky, di una di quelle barzellette incredibilmente sconce che sono sempre piaciute a entrambi. E, regolarmente, una poesiola – due versi soltanto – che è diventata tra noi quasi un segno di riconoscimento: «I wish I were in Paris // Where my car is». Irresistibile. E memorabile quanto l'epigramma che mette in caricatura la vita del poeta ( «I sit at the desk // My life is grotesque»), che Mary Jo Salter ha citato l'altra sera prima di leggere il suo omaggio in versi, facendo esplodere Walcott, seduto in prima fila, in una tonante risata. In quel momento chi lo conosce ha potuto sentire la eco di mille altre risate che più di trent'anni fa riuscivano a trasformare il loro stare insieme – due Nobel in pectore – in una coppia di goliardi.
Scampato all'inferno di Solovski dove solo per miracolo non era caduto sotto i colpi che avevano via via abbattuto trecento altri prigionieri, Brodsky portava in sè il dono prezioso della poesia che molto semplicemente consiste nella capacità di stupirsi con gratitudine davanti al mondo: davanti al fatto che invece del nulla esistono le cose. E questo atteggiamento verso la vita e l'arte, contagioso e confortante, è stato il suo insegnamento, come ha sottolineato ieri Adam Zagajewski. Alla fine degli anni Cinquanta in tutta Europa l'opinione corrente era che la poesia fosse morta. Vigeva l'esistenzialismo e il nero andava di moda. Ma a Leningrado Brodsky attraverso la lettura di Marina Cvetaeva, di Anna Akmatova e di Josif Mandel'svtam accese la luce. La poesia non fu più solo descrizione di quello che succede ma una consapevole forma di vita. Un atto riflesso della creazione, carico di senso e significato. La scoperta, come un verso dello stesso Zagajewski dice, che «non siamo soli. Che bisogna imparare a guardare». Che cosa è la poesia infatti, se, nonostante il dolore e le forze che ci opprimono, non ci permette di vedere? «Che cosa è la salvezza se non c'è nessuna minaccia?».
Da quando è successo quello che sappiamo attorno alla Torre di Babele, anche i poeti hanno preso a parlare idiomi diversi. E ciascuno di loro è forse tornato là da dove era partito Adamo, colui che per primo aveva dato il nome alle cose. Si dice anche che i poeti siano sempre un po' curiosi, l'uno dell'altro e ancora di più, forse, quando non parlano la stessa lingua. Valga per tutti l'esempio di T. S. Eliot il quale sosteneva di avere cominciato ad apprezzare Dante prima di essere in grado di capire l'italiano. Forse il fascino che esercita una lingua "vocalica" come la nostra, su chi è abituato a esprimersi e ad ascoltare una lingua "consonantica" come l'inglese; o, forse per la tendenza al canto che c'è in ogni poesia, per cui, anche quando non se ne afferrano le parole si ha l'impressione di venire sottoposti a un incantesimo. A una sorta di mantra. C'è insomma qualcosa che tiene insieme i poeti, ai quattro angoli del mondo.
Qualche bello spirito potrebbe aggiungere che i poeti non sono solo curiosi ma anche gelosi e che per questo si tengano d'occhio. C'è anche chi, addirittura, sostiene che ci sono in giro più poeti che lettori di poesia.
Può essere vero e sono peraltro personalmente convinto che come non esistano di fatto poeti "minori" – la poesia o è grande o non è – così il facile accesso al cosiddetto "verso libero" («free from what» esclamerebbero sdegnati all'unisono Walcott e Brodsky) ha prodotto solo libri che sono raccolte di pensierini.

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