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Questo articolo è stato pubblicato il 20 marzo 2011 alle ore 08:21.

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A prescindere da Gordon Gekko – icona pop del raider cinico, insensibile e vorace – la letteratura ha sempre assegnato una parte luciferina alla finanza e ai suoi uomini. Nel provvidenziale impianto del Conte di Montecristo, il banchiere Danglars è il cattivo tra i cattivi, a cui Dantes per vendicarsi procura la bancarotta. Centoquarant'anni dopo, Tom Wolfe, già geniale inventore dello chic-radicale, ne Il falo delle vanità, punisce il ricchissimo trader Sherman McCoy (con doveroso duplex in Park Avenue) facendogli perdere – in seguito a uno scandalo – vita, sostanze e privilegi di Signore dell'Universo.
Lo stereotipo del finanziere cinico nella trasposizione letteraria, ha un suo rovescio nella relazione tra banchieri e letteratura: dai trecentomila volumi (attuali) della biblioteca creata da Aby Warburg (o tra i banchieri americani quella di Morgan, che di libri però sapeva poco), fino alla complessità di figure di uomini a più dimensioni, finanzieri nel pieno esercizio del potere e intellettuali.
L'archetipo italiano di questa categoria è stato Raffaele Mattioli, capo della Banca Commerciale italiana per 40 anni. In lui convissero alla pari l'elemento storico-letterario e quello economico-politico, in una dimensione di cultura generalista, oggi difficilmente replicabile. Grande fascino personale, fortuna terrena, capacità di leadership, l'aneddotica su Mattioli è ricchissima. Qui solo piccoli cenni. Compra la storica editrice Ricciardi di Napoli, legata a Croce (autore fondativo di quella generazione), e stampa una collana di classici, dal 1200 in avanti. A Togliatti che gli chiede che senso abbia la collana, dice: «Ho creato un muro. Finché voi non avrete digerito i libri di questo muro, non potrete fare neppure un saltino così». Cioè, secondo l'interpretazione di una persona che lo ha studiato, Sandro Gerbi: se voi comunisti volete candidarvi alla guida del paese, avete bisogno di una base storico-letteraria. Tendente alla dimensione dell'uomo completo, in un'intervista nel '72, racconta le sue visite alla chiesa romana di Santa Maria della Pace, dove – lui "miscredente", dice di sé – fa una capatina per chiarirsi le idee davanti a un certo affresco di Raffaello. Sottotesto, il potere è solitudine. Amicizie variegate, da Mattei a Gadda, da Piero Sraffa a Montale da Nelson Rockfeller alla Anna Bonomi Bolchini, fu il creatore del fenomeno Comit, portatore di cultura generalista e di un contributo innovativo alla classe dirigente italiana, per i rapporti che intorno alla banca si consolidarono: Malagodi e La Malfa, Cuccia (e dunque attraverso la scuola derivata di Mediobanca, Vincenzo Maranghi), Francesco Cingano, Adolfo Tino e suo nipote Maccanico.
La Comit fu un'eccezione (solo l'Olivetti di Adriano avrebbe avuto una capacità di fascinazione assimilabile, ancorché in modo diverso). Per esempio, al Credito Italiano, tra le due guerre più che il management, contarono i battaglieri azionisti, Agnelli, Pirelli, Feltrinelli, e Gualino che a un certo punto la scalò, raider finanziario spregiudicato e – lui sì – eclettico e letterario.
Un'altra filiera di cultura generalista è stata quella della Banca d'Italia. Da Einaudi a Baffi al normalista Ciampi, ad Antonio Fazio, cattolico e tomista – testimoni rammentano le conversazioni con Cuccia su San Tommaso – e con un gusto quasi iniziatico per le parole (per esempio l'uso di un molto spiazzante "parresìa" nelle considerazioni finali del 1999).
Di quella generazione culturale, al vertice delle banche italiane è rimasto Giovanni Bazoli, il più articolato dei nostri banchieri. Formazione giuridica, diritto pubblico, visione della banca di mercato al servizio del paese, cattolico liberale, famiglia che è un pezzo di storia del Partito popolare italiano, vicino a Montini, amico personale di Andreatta e di Prodi, protagonista con Guzzetti, Geronzi, Profumo e Salza del consolidamento bancario, appassionato di studi biblici e molto legato alla bresciana Morcelliana, editrice fondata dal futuro Paolo VI, e che si occupa di filosofia, teologia e storia delle religioni, (con cui ha pubblicato due brevi saggi), e all'altra editrice bresciana La scuola.
L'indice di quel tipo di classe dirigente finanziaria si completa, con un gruppo vario di figure che arrivano dalla formazione giuridica. Alcuni esempi: dallo specifico della scuola pavese di Guido Rossi (un misto di tecnica dei dossier e di visione politica e storico-letteraria), fino a uomini come Piero Schlesinger, che presiedette la Popolare di Milano, Ariberto Mignoli e il suo successore alla cattedra di diritto commerciale alla Bocconi, Piergaetano Marchetti.
Nella generazione successiva cambiano molte cose. Declina il primato della base umanistica, con visione generalista della leadership. Le classi dirigenti economiche che si sono formate a partire dai 70, e cominciano ad affermarsi a partire dagli anni 90, danno un altro ordine di priorità al loro statuto. Al primo posto mettono il fattore internazionale al passo con la globalizzazione incipiente: la formazione universitaria o post (i master, i phd), i rapporti che ne conseguono, e una conoscenza più settoriale (la tecnica finanziaria, l'abilità gestionale diventano i temi del confronto internazionale e il fattore preponderante dell'agire quotidiano, anche perché le regole del gioco sono più vincolanti). Cambia l'approccio con la formazione e con la vecchia dimensione culturale. Dice Piero Celli, che ha lavorato in molte grandi imprese, anche in banca: «Sì, i rapporti internazionali diventano il punto di riferimento. Da qui una conseguenza interessante. Molti dei vertici finanziari tra i quaranta e i sessanta anni (ma si può dire in generale di tutte le aziende) è poco disponibile a scegliere modelli culturali come una volta, perché ritiene di essere protagonista dei cambiamenti pro-mercato in atto, in un certo senso di contribuire con la propria esperienza alla storia che si fa».

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