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Questo articolo è stato pubblicato il 24 marzo 2011 alle ore 09:02.

Un avvocato veneto alle dipendenze di una compagnia cinese.Carlo Geremia, arrivato per un periodo di studio, si è ormai perfettamente integrato. Parla la lingua, padroneggia i complessi principi contabili e normativi del paese e sa destreggiarsi nelle regole non scritte che governano le relazioni di lavoroUn avvocato veneto alle dipendenze di una compagnia cinese.Carlo Geremia, arrivato per un periodo di studio, si è ormai perfettamente integrato. Parla la lingua, padroneggia i complessi principi contabili e normativi del paese e sa destreggiarsi nelle regole non scritte che governano le relazioni di lavoro

Lo ammettono loro stessi che spesso non sono in grado di affrontare tematiche avanzate. Per esempio hanno studiato a lungo la legislazione antitrust degli Stati Uniti e quella della Ue, adottando alla fine il modello europeo, meno market oriented, con maggiori tutele per i cittadini». Come si lavora in una company cinese? Modello gerarchico o organizzazione manageriale "orizzontale"? Geremia non ha dubbi: «È un rapporto gerarchico, formalmente molto marcato. Al capo non ci si rivolge con il tu (ni) ma con il lei (nin). Non va mai contraddetto in presenza di colleghi o altre persone. In privato è meglio dissentire in modo velato, con domande retoriche, giri di parole, espressioni di preoccupazione o perplessità». La conoscenza della lingua è fondamentale, permette di evitare spiacevoli inciampi: «Un parere discorde o una critica richiede una struttura di frase molto precisa: "sono pienamente d'accordo con quanto da lei detto, vorrei però rilevare che..."».

Lingua antica, il cinese, adattata per il business: «I rapporti di gerarchia rispecchiano i rapporti familiari: per esempio la collega di lavoro più anziana si chiama jie (sorella maggiore), il giovane collega xiao (piccolo). Per esempio xiao Wang è il nostro collega di studio fresco di laurea. Il capo team è lao da (vecchio + grande, anticamente l'appellativo del primogenito)». Ci vuole tempo per imparare il bon ton manageriale in salsa confuciana: «Al capo ci si rivolge con il nin, direttamente con il cognome, più zong, che si può tradurre con general manager, responsabile. Il capo dell'ufficio legale della nostra compagnia, mio superiore diretto, è Cheng zong.

Quando invece si parla del capo nei corridoi, magari davanti alla macchinetta del caffè, lo si può anche definire laoban, il boss». Dieci anni di Cina sono sufficienti, è l'ora di rientrare in Italia? «No, qui a Shanghai mi trovo bene, anche se a Portogruaro torno regolarmente e sto cercando di insegnare un po' di italiano a mia moglie». Qualche consiglio, allora, per giovani che vogliano capire il mondo che verrà guardandolo attraverso la capitale economica cinese: «Shanghai non va vissuta come un'esperienza di qualche mese a Londra per perfezionare l'inglese, magari lavorando come cameriere, non foss'altro che per la distanza e la necessità di ottenere il visto. Questa città offre grandi opportunità professionali, ma non a tutti.

C'è grande fame di professionisti e di specialisti in materie tecniche, dubito che un laureato in marketing o pubbliche relazioni possa trovare un adeguato lavoro. Due consigli: primo, chi vuole la Cina deve preventivare due anni per studiare il cinese, indispensabile per poter operare in modo adeguato. Due anni è il tempo minimo, ma sufficiente: poi bisogna allenarsi continuamente. Secondo, il sistema cinese si basa molto sulle relazioni umane, il lavoro si trova sul passaparola, parlare la lingua locale permette di ampliare il network di conoscenze e, di conseguenza, di opportunità. E noi italiani siamo favoriti dal nostro carattere espansivo e aperto. In sintesi: la Cina è un investimento sicuro, ma bisogna lavorare per il medio periodo, non per qualche mesetto. Non è un paese mordi e fuggi».

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