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Questo articolo è stato pubblicato il 26 marzo 2011 alle ore 12:50.

Trieste quando Joyce vi giunse alla ricerca di un lavoro come insegnante alla Berlitz School era un posto assai particolare: porto franco dell'Impero austriaco, si presentava come un concentrato eccezionale di culture e razze con una stratificazione linguistica inconsueta (si parlava, oltre all'italiano e al tedesco, il croato, lo sloveno, il greco, l'albanese, l'ungherese, il ceco, lo slovacco, il polacco). Un crogiolo di usi e costumi che sembrava fatto apposta per avvalorare la visione joyciana di un panlinguismo letterario capace di dare nuove prospettive alla narrativa (si pensi solo alla Veglia di Finnegan). In questa atmosfera lo scrittore si accasò benissimo (se si eccettuano i suoi proverbiali problemi abitativi per morosità congenita), frequentando in undici anni l'anima popolare variegata della città (quella delle osterie e del quartiere dei bordelli in Cavana) che poi trasfuse nelle sue visioni dublinesi a distanza. Non solo, ma essendo un insegnante quotato, ebbe anche modo di frequentare l'alta borghesia ebraica della città (tra cui figurava Italo Svevo, divenuto suo allievo), che divenne modello per l'impianto dell'Ulisse, al cui centro sta l'ebreo errante Bloom, di origine ungherese, che si muove per le vie di Dublino come per le vie di Trieste.
Se pensiamo che a Dublino, agli inizi del secolo scorso, non c'erano più di 200 famiglie ebraiche, possiamo valutare l'importanza dell'impatto che ebbe la comunità triestina sull'immaginario del maggiore sperimentatore del XX secolo.
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