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Questo articolo è stato pubblicato il 27 marzo 2011 alle ore 08:21.

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«Per tutta la mia vita, mi sono fatto una certa idea della Francia»: così suonava l'esordio – presuntuosamente memorabile – dell'autobiografia pubblicata a suo tempo dal generale De Gaulle. «Per tutta la mia vita, mi sono fatto una certa idea dell'Italia»: così avrebbe potuto suonare l'esordio del libro pubblicato ora da Mario Isnenghi, Storia d'Italia. I fatti e le percezioni dal Risorgimento alla società dello spettacolo (Laterza, pagg. 678, € 30,00). Sarebbe stato – è chiaro – un incipit memorabilmente presuntuoso, ma avrebbe dato il tono di una Storia d'Italia davvero singolare. Unica, a confronto di tutte le altre messe fuori nel 150° anniversario dell'Unità.
Professore emerito all'università di Venezia, Isnenghi è fra i maggiori storici italiani. Dagli anni Settanta a oggi, volumi da lui firmati sul mito della Grande Guerra, sull'intellighenzia fascista, sull'Italia in piazza, hanno fatto epoca nella nostra storiografia. Adesso Isnenghi ha inteso offrirci una summa di oltre quarant'anni di studi, e ha scelto per farlo una modalità peculiare, quasi provocatoria. Non ha scritto (a dispetto del titolo) una storia d'Italia. Ha scritto la sua idea della storia d'Italia.
È dunque una storia, insieme, su misura e a tesi. Dove tutto viene tagliato secondo le priorità narrative e interpretative dell'autore, senza riguardo per le proporzioni standard, i luoghi comuni, lo storiograficamente corretto. Storia confidenziale d'Italia, avrebbe dovuto forse intitolarsi: sia per la sovrana confidenza di Isnenghi con la materia, sia per il tono complice del racconto. Anche se c'è da chiedersi quanti lettori saranno in grado di raccoglierle, queste confidenze tanto lunghe e tanto sapide: quanti potranno tenere dietro a un autore onnisciente che dà per note un'infinità di situazioni, di personalità, di opere. Siamo dinnanzi (va pur detto) a un libro d'altri tempi rispetto al bagaglio medio di cultura del lettore d'oggidì.
Flaubertianamente sospettoso verso le idées reçues, Isnenghi ha – lui – due idee forti, che accompagnano la sua storia d'Italia dall'inizio alla fine. La prima gli viene dalla lezione che il medievista francese Marc Bloch ha trasmesso a tutta la migliore storiografia del Novecento: è l'idea per cui, nella vicenda storica dell'umanità, le percezioni contano altrettanto dei fatti (da qui il sottotitolo del libro di Isnenghi). Sicché ricostruire il passato ha da essere scienza del soggettivo altrettanto che dell'oggettivo: scienza dell'accaduto, ovviamente, ma anche scienza del creduto, del voluto, dell'immaginato, del sognato. Storia del sentito, e storia del sentito dire.
Un solo esempio, per rendere conto di una tale maniera di pensare e di descrivere il passato: il modo in cui Isnenghi racconta l'Italia della Grande Guerra. Attraverso il dibattito dei giornali e del Parlamento, sì, ma soprattutto attraverso il vissuto di soggetti, individuali o collettivi, da lui riconosciuti come metonimie del Paese, parti evocative di un tutto: le bambine triestine di una quinta elementare, assai poco irridentiste; alcuni sacerdoti dell'altopiano di Asiago, molto più cattolici che italiani; quella sorta di minoranza egemonica dell'esercito in grigioverde che erano gli alpini; i militari chiamati a giudicare dei commilitoni colpevoli di diserzione, altrettante figure-limite fra carnefici e vittime...
La seconda idea forte di Isnenghi – fortissima – consiste nell'interpretare la nostra come la storia di «uno stato d'occupazione». È la storia dell'Italia occupata dalla Chiesa. Sotto forma di confidenza, l'autore ha l'onestà di avvertire il lettore fin dal preambolo: «Se la parola non ingenerasse equivoci, potrei dire schiettamente che questa è un'opera anticlericale». Per tutta la sua vita (fin da quando dedicava un volume giovanile alla figura chiave di Giovanni Papini), Isnenghi si è fatto una certa idea dell'Italia: l'Italia come il Paese in cui la Chiesa allunga sull'intera penisola, dalla cupola di San Pietro, l'ombra di un'istituzione «dogmatica, gerarchica, autoritaria; in una parola, totalitaria». Il Paese in cui la Chiesa consegna (condanna) gli italiani, tutti gli italiani, a una «doppia cittadinanza» e a una «congenita duplicità»: «Non siamo liberi, siamo doppi, titolari di una cittadinanza sempre insidiata, dall'esterno e – ciò che conta ancor più – dal nostro stesso interno».
Ecco il filo rosso del libro di Isnenghi, che è pur dato di ritrovare dentro la matassa di una prosa abbondante ed esigente: il filo rosso dell'occupazione vaticana dei nostri corpi come delle nostre coscienze. E perciò questa storia incomincia da Alessandro Manzoni: perché I promessi sposi sono il romanzo di una clamorosa assenza dello Stato e di una fragorosa supplenza della Chiesa. Senza che ciò neppure bastasse, d'altronde, al Vaticano di Pio IX, se è vero che dopo la breccia di Porta Pia, nel 1870, perfino le pagine di Manzoni, lo scrittore cristianissimo, odoravano di zolfo alle narici dei prelati d'Oltretevere.
Giunto alla storiografia dalla letteratura, più che farsi un esploratore di archivi Isnenghi è rimasto un lettore di testi: lettore invidiabilmente acuto, come dimostrano i capitoli della Storia d'Italia dedicati ad Antonio Fogazzaro e a Giovanni Guareschi. A mezzo secolo di distanza l'uno dall'altro, i loro due cicli di bestseller la dicono lunga sull'orizzonte d'attesa – rispettivamente – dell'Italia di fine Ottocento e dell'Italia di metà Novecento. Al tempo di Fogazzaro, diffusa era la speranza in una Chiesa cattolica che riuscisse a diventare liberale, e in una fede comandata che divenisse testimonianza quotidiana. Al tempo di Guareschi, diffusa era la speranza che le lacerazioni della guerra civile europea potessero ricomporsi all'ingresso di una sacrestia, nella maniera strapaesana per cui l'onorevole Peppone finiva sempre con l'inchinarsi davanti al crocifisso di don Camillo.

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