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Questo articolo è stato pubblicato il 02 aprile 2011 alle ore 14:04.

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Woody Guthrie (Ap photo)Woody Guthrie (Ap photo)

Sembra sia successo secoli fa, eppure sono passati poco più di due anni. Migliaia di americani al Lincoln Memorial di Washington, molti giunti fin dalle prime ore del mattino, nonostante la temperatura glaciale. Tutti accorsi per celebrare l'insediamento di Barack Obama nello studio ovale della Casa Bianca, la conquista della carica di presidente degli Stati Uniti, l'uomo più potente della terra (anche se forse non è più così). Sembrava l'inizio di una nuova era, invece ora pare che sia già trascorsa un'era intera.

L'entusiasmo messianico, l'investimento emotivo, la Speranza ("Hope"), una virtù teologale usata come slogan elettorale. Come in tutte le celebrazioni vere, non mancò la musica. Sul palco gli idoli di Obama, idoli rock che ricambiavano eccome la devozione. C'era Stewie Wonder, ma soprattutto c'erano Bruce Springsteene gli U2. Il primo, cantore impegnato di un America popolare che sogna e lotta, ama e fugge nelle strade secondarie dell'impero, amato al punto che Obama dichiarò di voler fare il Presidente perché gli era impossibile essere Bruce Springsteen. Come dire, una soluzione di ripiego.

Del gruppo irlandese, alfiere del miglior christian rock del globo, Obama aveva scelto«City of blinding lights» (certo non il capolavoro della loro trentennale carriera) come inno per la campagna elettorale. In fondo gli U2 avevano dedicato uno dei loro pezzi più belli e ispirati, «Pride« (in the name of love) a Martin Luther King. E Obama sembrava incarnare la promessa del reverendo King, rinverdire le gesta di Roosvelt durante il New Deal, spalancare finalmente la nuova frontiera evocata da John Fitzgerald Kennedy.

I dublinesi U2 e "The Boss" Springsteen avevano già più volte intrecciato le loro traiettorie. Ad esempio, nel 1988 nello stesso disco tributo a Woody Guthrie e al suo compagno di scorrerie musicali (e a tratti politiche), il suo gemello di colore Lead Belly. In Folkways: A Vision Shared c'erano anche Bob Dylan, John Mellencamp, Pete Seeger. Tutti loro devono qualcosa al cantante e scrittore Woody Guthrie, come tutta l'America di sinistra, impegnata, progressista. Obama compreso.

Ottima occasione per conoscere grandezze e ingenuità di Guthrie e ricordare quanto forte sia stata la sua influenza sulla canzone popolare di protesta, prima folk e poi rock e su tutta una fetta di cultura americana, è rileggere il suo miglior romanzo, l'autobiografico «Questa terra è la mia terra» (Marcos y marcos, p. 575, euro 12.50).

Il vagabondo Guthrie
Guthrie nacque nel luglio del 1912 in una smalltown dell'Oklahoma, piombata pochi anni dopo in pieno boom petrolifero. L'illusione dei soldi facili grazie all'oro nero prima fece la fortuna di suo padre, poi lo gettò sul lastrico. Seguono altre disgrazie a diversi membri della famiglia, disgrazie forse incentivate da biechi speculatori concorrenti. Guthrie ne uscì con una buona dose di rabbia contro il capitalismo e di attenzione per i diseredati. Prese a vagabondare per gli States, passando da un lavoro all'altro, vivendo e sudando fianco a fianco con senzatetto e proletari che non vivevano solo nelle pagine di Steinbeck. Imparò a suonare l'armonica e poi la chitarra che divenne, almeno così vi scrisse sulla cassa, una «macchina ammazza fascisti».

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