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Questo articolo è stato pubblicato il 03 aprile 2011 alle ore 17:59.

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L'impatto enorme delle tecnologie internettiane nella narrazione, nel coordinamento politico, nell'organizzazione quotidiana, nell'azione individuale si è verificato tanto velocemente che le domande sulle sue conseguenze culturali sono ancora inevase. Che cosa diventa la memoria nell'epoca di internet? Che cosa succede alla ricerca, alla filosofia, allo stupore? Come cambia il modo di pensare di chi si immerge nella rete? Per rispondere a queste domande incontrai alcuni anni fa Remo Bodei, professore di Storia della filosofia all'Università di Pisa. L'architettura dell'università invitava a sintonizzarsi con la lunga durata della cultura, l'arredamento denunciava la limitatezza delle risorse destinate dall'ateneo alla ricerca filosofica, il computer sulla scrivania ricordava l'urgenza delle domande.


Remo Bodei mi rispose: «Immerse nella rete, le persone hanno l'esperienza di un iperpresente nel quale tutte le conoscenze sono accessibili. Ma accessibili nello stesso tempo. È un'enorme ricchezza e un cambio di prospettiva». Si trovano documenti e materiali senza fatica ma non sono contestualizzati: i podcast delle lezioni al Collège de France accanto ai brani di Lady Gaga; le voci del popolo di Wikipedia accanto ai documenti di Europeana; le foto pubblicitarie accanto alle riproduzioni delle collezioni museali. Un web della consultazione, facilitata da Google, da iTunes, da Bing, da WolframAlpha, al quale si aggiunge il web della segnalazione: la vita quotidiana su Facebook, su Twitter, con Delicious, mostra che l'interessante è spesso lo scambio di link, foto, video. Si è bravi "conversatori " con gli "amici" nel momento in cui si danno agli altri suggerimenti davvero interessanti o semplicemente curiosi, bizzarri. È un livello dello scambio di conoscenze che ne produce meno di quante ne faccia circolare. Chi ci sa fare, ne emerge con la mente più aperta; chi si chiude tra i soliti amici culturalmente omogenei, perde un'occasione. Come accade, del resto, a chi si chiude in una stanza ad abbeverarsi solo di programmi televisivi.


C'è chi lo fa. E c'è bisogno dunque di migliorare la nostra consapevolezza delle qualità e dei difetti di internet. Ma si può dire che questo riduca la profondità culturale? Ha ragione Nicholas Carr nel domandarsi se per caso Google ci renda stupidi? La domanda è più che mai attuale, come dimostra il fiuto di John Brockman, anima del sito web Edge, che all'inizio del 2010 ha organizzato il suo annuale dibattito (online) intorno alla domanda: «In che modo internet sta cambiando il nostro modo di pensare?». È una domanda volutamente ambigua, perché riguarda sia quello che pensiamo, sia i nostri percorsi cognitivi. E che induce il fisico Daniel Hillis a sottolineare che «internet non è il web. Oggi si telefona con internet, si gestisce il traffico aereo su internet, si governa la logistica mondiale con internet. E anche in questo modo internet cambia il nostro modo di pensare. E lo cambierà ancora di più in futuro». Quello che si è fatto con internet finora non è niente in confronto a quello che ancora si può fare.


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