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Questo articolo è stato pubblicato il 17 aprile 2011 alle ore 08:25.

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Morto un papa non se ne può fare un altro se l'eletto è un uomo fragile, che si sente inadeguato non solo al soglio di Pietro, ma al confronto con gli altri e con se stesso. Ovvero è un essere umano. Totalmente umano. Morto un Papa non se ne può fare un altro, neppure se ad assisterlo viene chiamato lo psicanalista «più bravo di tutti»; perché siamo in un film di Nanni Moretti e Lui (Nanni, non il papa) emana dubbi da ogni ruolo in commedia e i ruoli sono tutti un po' suoi, e sia fatta la Sua volontà: piccole/grandi nevrosi condivise anche da chi sostiene di detestarlo, inquietudini puntigliose in cerca di un paradiso – possibilmente poco affollato – in cui perpetuarle all'infinito. Mentre il terapeuta rimane in Vaticano a insegnare con foga la pallavolo ai cardinali (la Chiesa non ha gradito), il paziente d'alto rango viene trasferito alle cure della ex moglie del terapeuta. Sia reso merito al work in progress su se stessa dell'ormai perfetta Margherita Buy: in cattedra dall'altro lato del lettino, affibbiando ogni trauma adulto a «deficit di accudimento infantile», dopo aver scalato ogni gradino della cine-nevrosi.
Moretti ha già diretto un religioso in crisi (se stesso) in La messa è finita. E ha interpretato uno psicologo in La stanza del figlio. Ma queste affermazioni, sentite un po' ovunque da quando la trama di Habemus Papam è stata rivelata, sono banalità incomplete: Moretti ha sempre indossato la psicologia e la veste da buon samaritano frustrato. Sempre, da quando fa cinema.
All'inizio ha praticato una strepitosa autocoscienza egocentrica che pretendeva – in senso buono, anzi divertente – di essere politica: flagellarsi di parole per non doversi confessare incapace di agire. In Sogni d'oro, Freud è persino protagonista di una parodia della propria vita. Il padre che perde il primogenito in un incidente subacqueo e non riesce a impedire che il dolore travasi in famiglia e con i pazienti, giunge tre anni dopo la galoppata notturna di Aprile in cui Moretti celebra la nascita del figlio Pietro (Prodi era solo un pretesto). Come non cogliervi un timore rivolto al futuro, la sorpresa di una nuova ossessione in colui che in Bianca era incapace di relazionarsi persino con le piante, ma già dichiarava: «È triste morire senza figli?».
E non è forse la parte "sociale" de Il caimano (film del 2006, non documentario di ieri) uno slancio di psico-indignazione capace di mettere il naso curioso non solo negli affari, ma in pensieri, parole, opere e omissioni del Cavaliere? Anche al netto delle profezie – non impossibili, ma descritte con un'esattezza che raggela – sull'odierno assedio a un tribunale. Dopo aver tanto scandagliato se stesso, tormentato gli amici, sbertucciato i critici, inseguito Jennifer Beals, sepolta e resuscitata la famiglia, setacciata Roma, scampata la malattia (Caro Diario), esorcizzati il lutto e Berlusconi, a Moretti non restava che psicanalizzare la divinità. Non è credente, ma gli sono simpatici i preti. Ecco dunque un papa quasi laico. Alzando lo sguardo, Nanni e i suoi co-sceneggiatori (Francesco Piccolo e Federica Pontremoli) hanno di certo colto la serena non-necessità di alzare anche il tiro: si trattava di plasmare ancora una volta una depressione intelligente, un libero turbamento. Spiazzanti, ma non radicali. Fragili nella delicata sostanza, ma solidi nella forma: quella affidata allo splendido 85enne Michel Piccoli che ha negli occhi, nel passo e nelle rughe, la musicalità del mimo: madre pianista (francese), padre violinista (italiano), 225 film girati, giusta reincarnazione di Tati al prossimo Festival di Cannes, dove Habemus Papam sarà in concorso.

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