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Questo articolo è stato pubblicato il 08 maggio 2011 alle ore 08:19.

E poi però ho guardato quei sedici ragazzi, e dopo loro ho guardato i quindici sacchi che avevamo riempito in questi mesi. Quale che fosse il contenuto, ciascuno di loro se lo sarebbe caricato sulle spalle, e ne avrebbe avuto cura, e con quel sacco in spalla, con quegli scampoli di Italia, sarebbe andato fino al Lingotto, al Salone del Libro, e fino a lì non avrebbe mollato un attimo il fardello. Poi ciascuno di loro avrebbe avuto il coraggio e la forza di salire sul palco e rovesciare il contenuto delle propria parola in terra, vuotare finalmente il sacco davanti a tutti, mettendoci la faccia. Lì, pensavo, avremmo parlato di quelle parole, di quell'Italia, con scrittori, poeti, artisti, persone di pensiero che avevano accettato la sfida del nostro vocabolario: Alessandro Bergonzoni, Giorgio Fornoni, Stefano Benni, Franco Loi, Patrizia Valduga, Maurizio Maggiani, e tanti altri. Ecco, guardando i miei sedici ragazzi ho pensato che giorno dopo giorno quel mucchio, sul palco del Salone, sarebbe cresciuto. E che loro sarebbero stati lì accanto a quelle macerie, e a quei fiori, con tutto l'orgoglio di chi aveva avuto la forza di portarsi quei pesi fin lì, e però anche un po' di vergogna, per tutto quel disordine, e alla fine anche con il coraggio di dire, magari arrossendo, che questo è il paese che gli abbiamo lasciato. Perché in quelle parole portate fin lì, e nell'orgoglio di averle trovate, c'è anche il desiderio, e la responsabilità, di provare a usarle. Di scoprirne la forza. E provare così a dare forma a un Paese diverso, detto da loro, nuovo, forse migliore di quello dei grandi.