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Questo articolo è stato pubblicato il 29 maggio 2011 alle ore 08:21.

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Non so più che cosa sia un romanzo. Un mondo che ancora oggi mi include e anzi migliora la mia percezione del mondo vero e proprio. Una macchinazione che mi rende più reale. Una chiave che aumenta o disorienta le mie conoscenze. Oppure un ammalato al cui capezzale gemono e trafficano cerusici capziosi. Ma so che oggi, come ieri, il romanzo è vivo o non è ancora perfettamente morto. I generi letterari, dopotutto, non muoiono improvvisamente ma lentissimamente, e la loro stessa agonia coincide – potrebbe coincidere – con il loro splendore. Scriveva Henry James che Venezia non precipita nel mare di schianto, ma poco alla volta, secolo dopo secolo.
Eppure, nonostante tutto, la mia fede vacilla. Se Alfonso Berardinelli, in un saggio dal titolo post-surrealista Non incoraggiate il romanzo («découragez les arts!»), scrive che il romanzo è un «genere oggi più editoriale e merceologico che letterario», sono quasi certo che abbia ragione. Se Andrea Cortellessa, a passeggio tra i banchi del Mercato rionale delle Lettere, osserva che siamo Senza scrittori, sono quasi certo che abbia ragione (anche se la sua ragione assomiglia troppo alla rinuncia o alla caricatura della neoavanguardia). L'uno volto criticamente indietro a un canone alto e dissono, da Gadda a Lampedusa a Parise a La Capria, l'altro volto drasticamente indietro a un canone unico, il cui vertice potrebbe essere Il giuoco dell'Oca di Edoardo Sanguineti, entrambi mi dicono che questa vita resistente del malato, che io riscontro ottativamente nel romanzo contemporaneo, è una chimera.
In particolare, come non accogliere l'invito alla perplessità di Berardinelli? «Oggi, sembra, si può fare tutto. Ma la libertà richiede una capacità di autocontrollo critico che dall'esterno, dalla tradizione, anche moderna, non viene più». E ancora: «Una volta superati i discorsi sulla crisi del romanzo che infestavano le riviste europee degli anni Sessanta, questo genere letterario si è trasformato a poco a poco in una categoria eterogenea di prodotti che occupano un certo spazio, portano quel certo nome e si presentano grosso modo come romanzi almeno nella prima e nell'ultima pagina». Non si tratta di pessimismo, né, tantomeno, d'una «nobiltà dello spirito» o di un «buon gusto» che spingerebbe il critico a storcere il naso di fronte alla prepotenza di narrazioni compulsive e stupide. In fondo ogni narrazione, materia e corpo del romanzo, nella sua composizione embrionale è sempre necessariamente compulsiva e stupida. Non esiste una narrazione intelligente. Il romanziere, diceva Tolstoj, è un cuoco che va al mercato e, guidato da effluvi, colori, guizzi, tagli di luce, e dalla sua stessa fame-verve, sceglie i salmoni, le ciboulettes necessari al pranzo. Salmoni-narrazione, ciboulettes-narrazione nella sporta del cuoco si avviano in un secondo momento, sul marmo del tavolo di cucina, a diventare intelligenti.
La critica, più che la narrazione, è la linfa vitale del romanzo. Nella nozione stessa di mimesi si mescola originariamente lo spirito della discordia. E il cosiddetto "realismo", come ha ben visto Albert Thibaudet, è sempre, formalmente, critica del reale. Persone e cose non rimangono mai tali e quali: lo Yorick che, buffo e candido, nel Tristram di Sterne, muore bastonato, è anche una figura per antifrasi dell'utopia, ricondotta duramente e comicamente in società, nel Settecento. Renzo Tramaglino che, uscito dall'osteria, dinnanzi ai mendichi «tutti del color della morte», dice sì alla dissonanza d'un mondo dai «lividori caravaggeschi» – dice sì al no della storia – è un personaggio paradossale: qual è, dov'è nascosta la realtà cui consente? Addirittura D'Artagnan, nei Moschettieri di Dumas, a un certo momento è il contrario di D'Artagnan, del puro moto, della pura avventura: saputo che Buckingham, per gelosia, ha deciso l'embargo di tutte le navi nei porti inglesi, diventa filosofo e compiange il destino dei popoli, sospesi al capriccio d'un solo uomo: a così «fragili e ignoti fili»...
Ma i romanzi che leggiamo oggi, in Italia, hanno a che fare con la forma-romanzo tradizionale (dal Lazzarillo de Tormes a Joyce), cioè essenzialmente con la critica del romanzo, cioè con l'ironia? E se l'ironia è innanzitutto tornare indietro, riprendersi ciò che si è appena detto, arrestare e rifondare il senso stesso della narrazione, allora chi è, oggi, tecnicamente, un romanziere? Tutto, non solo in Italia, suggerirebbe che il romanzo stia morendo per eccesso di narrazione-informazione, di plotting non cognitivo, di immediatezza. Qual è, formalmente, il grado di innovazione dei leggendari Franzen e Safran Foer? O non avrà del tutto ragione il vecchio santone Harold Bloom a parlare di soap operas? Se le storie, in sé, e universalmente, fin dalle origini, sono un bene primario e «ci tolgono molti anni dalle spalle» (Peter Brooks, ma anche Cervantes), è pur vero che, prive del freno o dell'intoppo della critica, non sono nulla.
Una risposta aristocratica, aristocraticamente evasiva, a questo stato di cose, è un libro – controintuitivo, si direbbe – di Franco Cordelli, La marea umana (Rizzoli). I personaggi di questo "romanzo" malinconico e intelligente non sono personaggi, ma quaestiones, scivolamenti metafisici, arretramenti e vertigini sul crinale della psiche. La vicenda non è una vicenda ma una mappa di deduzioni. Nuovo non solo rispetto al vecchio e stantìo del neoromanzo borghese, ma anche rispetto al cosiddetto nuovo dell'antiromanzo, La marea umana è una specie di libro d'ore sul romanzo in sé (recipiente in cui un tempo si rimescolava e si rappresentava l'umano), ma è anche un'ipotesi di ridefinizione drammatica, aleatoria, asimmetrica dell'umano stesso.

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