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Questo articolo è stato pubblicato il 05 giugno 2011 alle ore 08:22.

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Continuiamo a definirli eventi collaterali, ma ormai, nell'ambito della Biennale di Venezia, costituiscono un elemento imprescindibile, oltre che un fenomeno di vera e propria ipertrofìa.
Sono numerosissimi, rilevanti, in parte si svolgono sotto l'egida della Biennale, in altri casi sono completamente indipendenti. Occupano molti degli spazi prestigiosi della città. Da Pinault a Punta della Dogana, alla Fondazione Prada (con lo splendido allestimento di Palazzo Corner alla Regina), da Kiefer presso la Fondazione Vedova ai Magazzini del Sale a Schnabel al Museo Correr. Durante la Biennale, a Venezia, ci sono tutti.
Oltre a questi eventi, che hanno già fatto parlare di sé, ce ne sono altri che meritano di essere visitati. Come la mostra The Mediterranean Approach che si svolge, a cura di Adelina von Fürstenberg e Thierry Ollat, nel settecentesco Palazzo Zenobio. Il bacino del Mediterraneo è da sempre un'area geopolitica cruciale: culla di diverse civiltà, attraversato da ondate migratorie, composto da Paesi accomunati da usi e costumi, ma divisi da conflitti talvolta strenui. La mostra si inserisce in questa riflessione attraverso le opere di tredici artisti provenienti da altrettanti Paesi affacciati su questo mare, artisti che non esitano a raccontare il proprio tempo con impegno, senza però rinunciare a un linguaggio poetico. Sono Ghada Amer, Ziad Antar, Marie Bovo, David Casini, Hüseyin Karabey, Ange Leccia, Adrian Paci, Maria Papadimitriou, Khalil Rabah, Zineb Sedira, Gal Weinstein e Peter Wüthrich. A ognuno di loro è dedicata una sala, e ogni sala riserva una sorpresa per l'intensità delle opere che incontriamo. Così, dentro campane di vetro stanno le cinque preziose sculture di un artista italiano, David Casini, originate dalla disincantata osservazione di un fenomeno presente in molti Paesi affacciati sul Mediterraneo, quello dell'abusivismo edilizio e della conseguente endemica presenza, nel paesaggio, di architetture incompiute. Architetture iniziate, ma non finite a causa dell'esplosione della guerra civile, abbandonate per sempre allo stato di scheletri derelitti, sono anche quelle fotografate da Ziad Antar a Beirut. La guerra torna in No darkness will make us forget, poetica videoanimazione di Hüseyin Karabey, che prende spunto dal discorso di pace e di tolleranza della vedova di un giornalista armeno ucciso nel 2007 a Istanbul da un estremista. Ed è sullo sfondo dell'opera dell'israeliano Gal Weistein, che realizza una pavimentazione rappresentante una vallata verde, coltivata con cura: una metafora del desiderio di stabilità e di radicamento. All'opera fa eco un disegno che raffigura Petra, simbolo del luogo irragiungibile, del confine che fino a pochi anni fa agli israeliani era proibito varcare: nell'accostamento tra le due opere emergono tensioni, nodi, contraddizioni e la discrepanza tra il desiderio e il suo compimento. Ed è ancora nel lavoro di Khalil Rabah, palestinese, simboleggiata dal muro che divide i territori occupati da Israele. Intorno a quel muro ogni cosa inaridisce e rischia di venire annullata; tanto che Rabah organizza una paradossale asta di materiali provenienti dal-

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