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Questo articolo è stato pubblicato il 05 giugno 2011 alle ore 08:19.

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Era diventata una vera ossessione. Per settimane non aveva pensato ad altro, chiuso in casa giorno e notte a scrivere. Correggere, accumulare prove e citazioni. Non aveva tempo per godersi la primavera romana, e anche quando si concedeva una brevissima pausa per vedere gli amici, riusciva a parlare solo dei suoi guai, dell'affronto che aveva subito da quella manica di ignoranti. Lui, il magnifico Conte Giovanni Pico della Mirandola, costretto a difendersi da un'accusa infamante, e per di più davanti a zotici che non conoscevano una parola di greco e d'ebraico. Eresia, ecco cosa pensavano in curia delle sue idee.
Le Tesi che Pico aveva pubblicato nel dicembre 1486 e che avrebbe voluto discutere in un dibattito pubblico alla presenza del papa, puzzavano di eresia. Anziché gli elogi erano venuti subito i sospetti, le accuse, le minacce. Il Pontefice aveva nominato una commissione d'inchiesta, presieduta da un vescovo, e gli aveva ingiunto di presentarsi davanti ai teologi per discolparsi. I commissari dell'inquisizione ne erano sicuri. Dietro lo sfoggio di erudizione del giovanissimo Conte – Pico aveva appena ventiquattro anni – si nascondeva una presunzione pericolosa per santa madre Chiesa. A che cosa servivano tutte quelle strampalate teorie di filosofi pagani, maestri musulmani e misteriosi cabbalisti ebrei, se non a confondere la testa degli uomini di buona fede? Pico affermava di aver trovato un nuovo metodo per raggiungere la sapienza universale. Ma ai dottori sembrava invece una mostruosità che un laico, privo di qualsiasi autorità ecclesiastica, si mettesse a discutere di dogmi, e pretendesse addirittura di riformare la Chiesa a suon di sillogismi e di artifici retorici. Come se non bastasse, Pico aveva fatto stampare le sue Tesi dal migliore tipografo di Roma, le aveva fatte affiggere in luoghi pubblici e le aveva distribuite agli amici. Un affronto intollerabile, a cui bisognava reagire il prima possibile.
E così fu. Dopo appena due settimane di udienze, la commissione stabilì che tredici tesi erano eretiche, o comunque gravemente errate. Pico s'era fatto vedere solo alle prime riunioni e poi s'era chiuso sdegnato nella sua dimora romana. Ma se aveva rinunciato a controbattere di persona ai teologi del Papa, non aveva nessuna intenzione di arrendersi. Attorno a lui si era stretto un partito di sostenitori. Era sicuro che, se fosse riuscito a spiegare le proprie ragioni, lo stesso Innocenzo VIII lo avrebbe assolto, e anzi lo avrebbe colmato di onori. Fu dunque nel mese di aprile 1487 che il Conte della Mirandola scrisse di getto, in latino, un testo appassionato, difficile, a tratti insolente, con cui voleva mettere fine, una volta per tutte, alle accuse e insinuazioni sul suo conto. Nacque così l'Apologia, una delle creazioni più significative dell'intero Rinascimento. L'opera fu stampata, probabilmente a Napoli, alla fine di maggio. Com'era da aspettarsi, il tono ribelle, lo sfoggio d'erudizione, il sarcasmo contro l'ignoranza dei commissari urtarono ulteriormente gli ambienti della curia e aggravarono la situazione di Pico. Questi fu accusato di persistere nella colpa di eresia, e il Papa, dopo qualche tentennamento, dovuto probabilmente alle pressioni di protettori altolocati (primo tra tutti Lorenzo de' Medici), ordinò l'arresto del Conte. Pico tentò di fuggire in Francia, ma fu intercettato da Filippo di Savoia, e dovette trascorrere un mese nella fortezza di Vincennes, prima di essere rimesso in libertà e poter raggiungere Firenze – sotto la protezione di Lorenzo – dove sarebbe rimasto fino alla morte prematura nel 1494.
L'Apologia è per molti versi un documento esemplare, che annuncia il grande rivolgimento intellettuale dell'età moderna. Nonostante la sua importanza, questo scritto provocatorio era rimasto finora inedito in italiano. O per meglio dire, solo il proemio, in forma rimaneggiata e col titolo di Orazione sulla dignità dell'uomo, ha conosciuto una straordinaria fortuna. Il resto delle argomentazioni pichiane sono ora accessibili per la prima volta in un'edizione critica, accompagnata dalla versione nella nostra lingua a cura di Paolo Edoardo Fornaciari. Pico si avvale della stampa, la grande novità tecnologica del secondo Quattrocento, per diffondere il proprio dissenso. Difende le tesi condannate dalle accuse dell'Inquisizione, e lo fa rivendicando la propria autonomia di umanista. Solo chi conosca e sappia discutere criticamente le fonti – questa è l'argomentazione del Conte – può giudicare il loro contenuto e l'eventuale pretesa di verità. Non a caso, tra i temi censurati dalla commissione e ripresi nell'Apologia, vi è la libertà religiosa. Secondo Pico, infatti, l'atto di credere non dipende solo dalla volontà ma anche dall'intelletto. Da qui la sua ricerca incessante di percorsi sapienziali verso il divino, e l'insofferenza per la pretesa dei teologi di soffocare ogni discussione. Certo Pico – benché brillante d'ingegno, ambizioso e aggressivo, nobile di nascita e con amicizie influenti – poteva ben poco contro l'autorità ecclesiastica. Quando Innocenzo VIII mosse la macchina repressiva dell'Inquisizione, la sconfitta del Conte parve inevitabile. E di fatto Pico fu costretto, se non al silenzio, a moderare di molto le proprie pretese intellettuali, e a un sostanziale esilio fiorentino, seppure dorato.
Ma la sua ribellione, seppur fallita nell'immediato, rappresentò comunque una svolta. Innocenzo VIII mostrò di prendere sul serio l'utopia sapienziale del Conte della Mirandola, e ne colse il potenziale eversivo. A Lorenzo, che insisteva perché l'amico Pico fosse perdonato, il Papa fece rispondere che «questo è caso importantissimo et è altra cosa gratificare Lorenzo del figliolo, o compiacerlo dove non entra in questi casi della fede». Vale a dire, che per il Pontefice era cosa di minor conto conferire la dignità cardinalizia a Giovanni, il figliolo appena tredicenne di Lorenzo de' Medici, che non transigere sullo scandalo provocato dalle Tesi pichiane.

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