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Questo articolo è stato pubblicato il 03 luglio 2011 alle ore 08:14.

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Salvatore Scibona era una causa persa persino ai suoi stessi occhi. Al liceo non concludeva nulla di buono. Bruciò il suo libretto scolastico nel lavandino del fast food KFC, dove scrostava il grasso carbonizzato dalle cucine per 3,85 dollari l'ora. Sognava solo di andarsene dall'Ohio. Lì era nato pronipote di emigrati italiani e polacchi. A Cleveland, dove ha ambientato La Fine, il suo primo romanzo che ne lo ha reso, a 36 anni, uno degli autori più interessanti degli Stati Uniti.
L'antefatto non deve ingannare. Non è l'ormai logora storia dello scrittore maledetto, con un biglietto di andata e ritorno per gli inferi da cui riemerge con un gruzzolo di parole per i posteri e qualche neurone in meno. Non molto tempo dopo il liberatorio falò, Scibona ha deciso di mollare i libri di testo, i «libri sui libri» e passare direttamente ai «libri libri». Ha letto Omero, Kant, Einstein, Aristotele, Copernico, Darwin, Hegel, Newton, Baudelaire. Per capirli ha studiato il francese e il greco antico, lingua che fino a poco prima neppure sapeva che esistesse ancora. «La lettura? L'ho sposata» è solito dire, incurante delle ammiratrici. «Da allora è stata una sempre più intensa, enigmatica, gioia».
Dai classici è tornato poi alle sue origini, raccontando le vicende di un gruppo di immigrati e di figli di immigrati italiani. Vita ordinaria di gente ordinaria, narrata con le parole semplici dei protagonisti, pensieri modellati sul lavoro manuale, metafore prese a prestito dalle attività di un forno, o di un cantiere, eppure intrise dalle domande ultime e senza tempo dei grandi libri del passato.
Perché ha scelto di parlare degli umili e di esistenze comuni? Scibona, che incontriamo a Roma, a casa del suo editore italiano, Isabella Ferretti, fondatrice con il marito Tomaso Cenci di 66thand2nd, non ha più nulla dell'adolescente disorientato, inquieto, in fuga dal suo mondo asfittico, dalla sua solitudine tossica. È un uomo caparbio, volitivo, che si ostina a voler parlare in italiano e allo stesso tempo a non dire una sola parola che non abbia un significato scelto con cura. Strana combinazione di una personalità fortissima e sorprendentemente gentile. «Non avevo mai conosciuto nessuno di importante, di eroico - risponde -. Le persone più eroiche che ho incontrato erano modestissime. Mio nonno, o la mia bisnonna: una donna analfabeta emigrata negli Stati Uniti a 18 anni e morta a 94 anni senza mai avere imparato l'inglese. Eppure ha vissuto tutta una vita, ha avuto sei figli, una fattoria, senza saper leggere né scrivere, senza poter comunicare quasi con nessuno. Nella mia immaginazione i problemi di persone modeste, "piccole", sono problemi grandissimi. Non importa la cornice: se in un romanzo riesco a costruire un mondo in cui un uomo ha perso un figlio, per quanto piccolo, per quanto limitato, questo sarà comunque un mondo enorme, in cui lui è un uomo eroico».
L'uomo che ha perso un figlio è l'infaticabile panettiere Rocco. Dopo anni di titanica lotta per tenere in piedi la misera panetteria, la chiude per la prima volta quando viene a sapere che il figlio che tempo addietro lo aveva abbandonato insieme alla moglie, è morto in guerra in Corea, soldato americano arruolatosi volontario. Era italiano, Rocco. Ricorda i giorni in cui da bambino s'arrampicava sui faraglioni di basalto piantati nel mare di Aci Trezza. Gli stessi davanti cui si svolgono i Malavoglia, di Giovanni Verga. Sente forse una contiguità con questo scrittore? «Non voglio essere immodesto perché Verga è un grandissimo autore – risponde Scibona, che lo scoprì più di dieci anni fa quando venne a Catania per lavorare al suo libro: abitava al 16 di piazza Verga -. C'è però una differenza tra il suo metodo e il mio. Lui ha scoperto l'eroismo dei poveri, delle persone modeste. Io volevo anche scrivere un romanzo di idee, sulle questioni filosofiche che si trovano anche nella mente di persone senza educazione. Mi sento vicino a Verga e influenzato da autori moderni come Virginia Woolf e Saul Bellow. Ma i personaggi che loro descrivono devono avere un'educazione per potersi porre delle domande astratte. All'inizio avevo impostato il romanzo con personaggi modesti e una voce narrativa molto sofisticata. Ma era sbagliato: non volevo avere una voce esterna che sapeva di più rispetto a ciò che i personaggi conoscevano. Ed era un errore pensare che le persone non potessero porsi questioni sulla morte e sull'eternità solo perché non potevano leggere. Ho riscritto tutto».
La Fine è un racconto epico senza eroi né gesta memorabili. Dipinge la metamorfosi dell'Italia contadina dei nostri nonni quando entra in contatto con un contesto più grande, sospesa in uno stato di transizione perenne tra terra d'origine e di approdo, tra il vincolo delle radici che si sfaldano e la formazione di una nuova identità. Un baratro esistenziale che può essere metafora della vita stessa. I personaggi sperano di trovare il senso della vita vissuta e che questo infine definisca chi sono. «Anime vulnerabili», in divenire, «che non si sono ancora indurite come mattoni nella fornace», dice Rocco (parlando dei suoi figli). Individui alla ricerca del proprio compimento che, come Achille che insegue la tartaruga nel paradosso di Zenone, non lo raggiungeranno mai. Impossibile sentirsi completi. È a questo a cui allude il titolo «La Fine».
Trovare il senso del romanzo sta a chi lo legge: «il lettore è sempre nel giusto, ha il suo punto di vista e basta», ma Scibona ci fornisce un indizio sul significato del titolo parlando di Ciccio, indimenticabile ritratto di un adolescente nell'atto di diventare adulto: spiega che «quando lui dice ‘ero potenziale puro, come un uovo', ha quel desiderio di aprire la finestra e dal mondo della giovinezza passare al mondo esteriore. Desiderio di dare corpo alla sostanza di cui è composto, di sentirsi una cosa piuttosto che un'idea. Penso che tutti cominciamo a volerlo a qualche punto della nostra giovinezza, ma continuiamo a volerlo per tutta la vita. Sempre c'è qualcosa di più, qualcosa che sta al di fuori, che desideriamo. È un'idea un po' buddista, forse. Un punto fuori del presente in cui diventeremo completi. Un punto che non esiste. In un certo senso il titolo è uno scherzo, perché è un obiettivo fantasma». Spiega Scibona, che ama i paradossi.