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Questo articolo è stato pubblicato il 10 luglio 2011 alle ore 18:36.

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Provate. Provate a tirare in ballo, durante una conversazione con un filosofo, un sociologo, uno storico, un critico d'arte, uno psicologo, un politologo, un musicista o un romanziere (insomma: con un mio collega "umanista"), qualche concetto base della relatività einsteiniana o il ruolo dei neuroni specchio nel nostro cervello. Io lo faccio da tempo, e queste sono le mie personalissime statistiche: l'80 per cento degli interlocutori sgranerà gli occhi, assumerà un atteggiamento di difesa, che si trasformerà ben presto in una smorfia di fastidio, e vi dirà: «Ah, no... Io, di queste cose, non capisco niente». Poi più o meno la metà di quell'80 per cento aggiungerà orgoglioso: «E non voglio nemmeno capirci niente». Solo un 20 per cento di irregolari, di curiosi, di eclettici, vi starà ad ascoltare con maggiore o minore interesse.

Eppure, non ci sarebbe bisogno di scomodare Enzensberger per ricordare che «la filosofia, la poesia e la scienza, alle origini, procedevano tenendosi per mano», che furono i filosofi presocratici a fondare la fisica in Europa, o che Leibniz e Descartes erano insieme filosofi e matematici, che Newton era addirittura «l'ultimo dei maghi». E oggi? Be', oggi sembra onestamente difficile fare filosofia, o riflettere sulla storia del pensiero politico, senza tenere in considerazione le nuove idee cosmologiche o quelle sullo spazio e sul tempo della nuova fisica; oggi sembra quanto meno presuntuoso parlare di sentimenti o di emozioni (e perfino di società e di socialità) senza sapere nulla di sinapsi e neuroscienze, o cercare di raccontare letterariamente la "realtà" ignorando che quella realtà è molto più assurda, sfuggente e complicata di quanto si fosse mai immaginato prima.

Prima della meccanica quantistica, ad esempio. A questo proposito, Stephen Hawking è stato tranchant: «Come si comporta l'universo? Qual è la natura della realtà? Che origine ha tutto ciò?» ha scritto di recente. «Per secoli questi interrogativi sono stati di pertinenza della filosofia, ma la filosofia è morta, non avendo tenuto il passo degli sviluppi più recenti della scienza, e in particolare della fisica». D'accordo, forse Hawking esagera, forse la filosofia non è del tutto morta, ma la domanda resta: perché i letterati, e gli "umanisti" in genere, si ostinano a tenersi a distanza da tutto ciò che ha a che fare con la scienza?

Poco più di cinquant'anni fa, in una famosissima conferenza all'università di Cambridge, Charles Percy Snow puntava il dito contro le "due culture", mettendo sotto accusa la scissione tra sapere umanistico e scientifico. Il problema sollevato da Snow era antico, ma non antichissimo: risaliva più o meno alla metà del XIX secolo. Era da allora, infatti, che la scienza aveva iniziato a essere considerata un ambito separato dalla cultura, invece che una sua parte fondamentale e costitutiva.

Oggi, a più di cinquant'anni dal discorso di Snow, qualche passo in avanti è stato fatto, ma il problema persiste: paradossalmente, nelle nostre società si può essere considerati colti se si conoscono Dante, Bach, Velázquez o Aristotele, ma l'ignoranza su Einstein, Heisenberg o Darwin non viene ritenuta rilevante per definirci tali, quasi che la scienza non sia a pieno titolo "cultura" e non palpiti con forza nella nostra vita di tutti i giorni, nella nostra «società della conoscenza».

Questo è vero un po' in tutto il mondo, ma in Italia è peggio, molto peggio. Qualche mese fa, proprio su queste pagine, Armando Massarenti ricordava come, al congresso della Società filosofica italiana del 6 aprile 1911, un uomo di ampissime vedute come il matematico e filosofo della scienza Federigo Enriques venisse umiliato e fatto passare per dilettante da Benedetto Croce e Giovanni Gentile. Per Croce, infatti, sulla scia di Hegel, la scienza non aveva un valore conoscitivo, non era nemmeno un sapere; al massimo, era un'attività pratica, utile al più per ordinare le nostre esperienze e favorire la memoria. Eppure, nel clima di reazione antipositivista dell'epoca, fu proprio il neoidealismo a vincere la battaglia, ricorrendo a ogni tipo di colpi bassi. Un vero e proprio turning point, quel congresso.

Da allora, come ha notato Carlo Bernardini, Gentile mise le mani sulla scuola, mentre Croce diventò il punto di riferimento della cultura italiana. E la scienza fu confinata in ambito accademico, salvo poi approfittare delle sue utilissime e appetibili ricadute tecnologiche. Ecco: noi, per quanto riguarda i rapporti tra le "due culture", siamo rimasti segnati da quel congresso di cent'anni fa. Quell'idea di scienza imposta da don Benedetto, riduttiva, sbagliata, ma vincente, ha marcato, almeno in Italia, lo sviluppo culturale, sociale, economico e perfino politico del Paese.

Va detto, d'altronde, che non sempre i pochi umanisti che si sono avventurati su qualche sentiero battuto dalla scienza hanno reso un gran servizio alla ricomposizione delle due culture. Facciamo un esempio impegnativo: Italo Calvino. Sì, proprio lui, nonostante la sua grandezza. Perché a me, con molta umiltà, sembra che, più che provare a raccontare il mondo avendo nel proprio bagaglio intimo di narratore l'immaginario e la conoscenza scientifici, Calvino sia al massimo riuscito a citare i semplici nomi della scienza, riducendola spesso a materia sottilmente esotica da cui attingere evocativamente, mentre, a livello di struttura, non è quasi mai andato oltre il fascino dell'enumerazione o della simmetria. Del resto, la sua visione della scienza, illuministica, algida, immancabilmente esatta (quindi in radicale contrasto con la stessa epistemologia novecentesca, aperta alla probabilità e all'indeterminazione), non è stata capace di riversare sulla pagina il mistero, la passione e la fascinazione che abitano quel mondo, i tesori ancora da scoprire in quei territori.

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