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Questo articolo è stato pubblicato il 13 agosto 2011 alle ore 20:10.

In primo luogo Obama si è ritrovato tra le mani una situazione di generale crisi della ricerca scientifica, e dei rapporti tra scienza e politica. Nel suo discorso d'insediamento disse che era venuto il momento di «rimettere la scienza nel suo giusto posto». Cosa voleva dire? Semplicemente che andavano riparati i danni causati dall'amministrazione Bush, esercitando un controllo politico e poliziesco sulla ricerca e sul flusso di scienziati dall'indomani dell'11 settembre.
Nel corso dei quattro anni successivi all'attacco alle Twin Towers nelle università americane crollò il numero di studenti stranieri iscritti, e il numero di ricercatori provenienti soprattutto dai Paesi non europei. Segretazione dei risultati, controllo sull'uso di alcune tecnologie e reagenti, sorveglianza sugli studenti e ricercatori per prevenire il rischio di nuovi attacchi terroristici e addirittura il tentativo di centralizzare il processo di valutazione dei progetti di ricerca: la comunità scientifica non ne poteva più, e lo dichiarava pubblicamente. Vedeva pesantemente minacciato la condizione fondamentale per lo sviluppo dell'eccellenza: la libertà della ricerca scientifica.

In alcuni settori, come la medicina rigenerativa, dove l'amministrazione Bush ha tenuto una politica proibizionistica relativamente alla ricerca con staminali embrionali, le università statunitensi hanno perduto scienziati di punta che sono emigrati in Europa e a Singapore.
Gli effetti degli interventi di controllo si sono alla fine sommati con gli effetti della crisi economica del 2008, e con la scelta da parte di molte aziende statunitensi di usare forza lavoro intellettuale direttamente nei Paesi che nel frattempo la stavano producendo e dove costa meno (India, Russia, Filippine eccetera). A questo si aggiunga che alcuni Paesi, soprattutto orientali ma non solo, si sono trovati a registrare uno sviluppo economico che offriva maggiori opportunità per i ricercatori o i professionisti emigrati negli Stati Uniti. Così dal 2009 si parla di fuga di cervelli 'all'incontrario' (reverse brain drain): figure di altro profilo scientifico e tecnico che lasciano gli Stati Uniti e che trovano nei Paesi economicamente in crescita centri di ricerca e opportunità di impiego competitive con le offerte statunitensi.

Nel momento in cui il modello americano di uso dell'intelligenza necessaria per far funzionare le knowledge based economies risulta globalmente vincente, gli Stati Uniti rischiano dunque di non esserne più alla guida? L'impressione è che quello che preoccupa Obama ‐ a sua volta un professore universitario, non dimentichiamolo ‐ sia il fatto che quel modello si è evoluto, sin dai Padri Fondatori, come parte integrante del modo di essere della democrazia americana. Ed è stato, attraverso un processo efficiente e affidabile di formazione delle élite intellettuali e tecniche, il principale strumento che ha garantito a quel Paese anche una certa leadership mondiale sul piano dell'etica pubblica.
Insomma i sommovimenti economici mondiali avranno effetti anche nel ridisegnare gli scenari di produzione delle conoscenze, con conseguenze che è difficile prevedere, ma che saranno abbastanza drammatiche.

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