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Questo articolo è stato pubblicato il 27 agosto 2011 alle ore 18:18.

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L'ultima cena di Gesù fu davvero una cena pasquale (come ritiene la tradizione della Chiesa esplicitata anche dalla liturgia cattolica del Giovedì Santo) oppure fu soltanto una cena particolare d'addio ai discepoli (come ritengono oggi la maggior parte degli studiosi di Sacra Scrittura e persino Joseph Ratzinger nel suo ultimo libro Gesù di Nazaret)?

Parte da questa domanda il biblista novarese Silvio Barbaglia per offrire un contributo originale sul tema che si spinge fino a sostenere, dopo un'attenta disamina dei quattro vangeli canonici, che Cristo non abbia preso cibo la sera in cui fu tradito da Giuda Iscariota, ma abbia digiunato mentre offriva il pane e il calice di vino a quelli che avevano vissuto per anni insieme a lui e condiviso la sua missione pubblica e il suo annuncio per le strade della Palestina.

Nel libro appena uscito Il digiuno di Gesù all'ultima cena (Cittadella Editrice) Barbaglia sostiene questa tesi sulla scorta del grande esegeta tedesco Joachim Jeremias, attraverso il metodo della lettura "canonica" dei vangeli, ossia attraverso un esame che mira a considerare i quattro testi di Matteo, Marco, Luca e Giovanni come quattro tappe in sequenza della medesima storia, al di là (ma non contro) delle ricerche filologiche proprie della cosiddetta "esegesi storico-critica".

La questione della natura e della datazione dell'ultima cena è avvolta da reali difficoltà proprio perché le cronologie dei vangeli sinottici e di Giovanni sembrano discordare nel racconto degli ultimi giorni della vita di Cristo. Secondo l'importante esegeta cattolico John Meier, seguito in questo da papa Ratzinger, l'ultima cena di Gesù non fu un pasto pasquale, ma una cena conviviale svoltasi la sera precedente la Pasqua giudaica all'interno della quale Gesù anticipò i significati essenziali del dono della propria vita. Eppure il Catechismo della Chiesa Cattolica è molto chiaro al riguardo, scrivendo al n.1340: "Celebrando l'ultima Cena con i suoi Apostoli durante un banchetto pasquale, Gesù ha dato alla Pasqua ebraica il suo significato definitivo. Infatti la nuova Pasqua, il passaggio di Gesù al Padre attraverso la sua morte e la sua risurrezione, è anticipata nella Cena e celebrata nell'Eucaristia, che porta a compimento la Pasqua ebraica e anticipa la Pasqua finale della Chiesa nella gloria del Regno".

Barbaglia ingaggia un confronto soprattutto con Meier e Ratzinger prima di tutto sulle metodologie di lettura dei testi, poiché da qui conta di ricavare la chiave per sciogliere le contraddizioni che hanno caratterizzato da sempre la sfida dell'armonizzazione tra la cronologia sinottica e quella giovannea dell'ultima cena. È chiaro che, come sottolinea bene il prof. Barbaglia, per raggiungere tale scopo deve cambiare l'atto di lettura e soprattutto la "teoria del testo" che deve sostenere tale atto di lettura. Non più quindi un approccio di tipo storico-genetico, bensì un approccio che consideri appunto i quattro vangeli in sequenza così come disposti dal canone delle Scritture codificato fin dal secondo secolo.

L'atto di lettura canonico predilige il quadro ideologico dei testi e l'intenzionalità dei narratori per la comprensione delle vicende raccontate nei quattro vangeli. Barbaglia ricorda che l'operazione, tipica di buona parte dell'esegesi contemporanea, di separare la storia dalla fede nella ricerca sulla vita di Gesù, non considera la natura stessa della fonte evangelica nella sua forma di testimonianza. L'autore ammonisce nel suo libro: "Dissociare l'intenzionalità del testo per separare e assumere solo ciò che è funzionale alla propria ricerca storica è un'operazione tanto praticata e universalmente condivisa quanto poco fondata sulla logica intrinseca della testualità originaria". Dai diversi approcci alla lettura del testo, secondo Barbaglia, conseguono i differenti esiti di ricerca degli storici e degli esegeti della Scrittura.

Tornando al libro in questione, dopo aver illustrato i guadagni ermeneutici dell'approccio canonico alla Bibbia, l'autore si dedica ad approfondire gli aspetti secondo i quali l'ultima cena di Gesù fu una cena pasquale, nella quale, però, Cristo si astenne dal cibo. Un passo importante per questa interpretazione è Lc 22,15-18: "Ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione, poiché vi dico: non la mangerò più, finché essa non si compia nel regno di Dio. E preso un calice, rese grazie e disse: prendetelo e distribuitelo fra voi, poiché vi dico: da questo momento non berrò più del frutto della vite, finché non venga il regno di Dio".

Barbaglia cita Jeremias, secondo cui è inverosimile che Cristo abbia mangiato e bevuto pane e vino che egli indicava come suo corpo e suo sangue. Inoltre l'antica storia della Chiesa testimonierebbe come in Asia, alla fine del primo secolo, le comunità cristiane festeggiassero la Pasqua contemporaneamente ai giudei, ma, diversamente da loro, digiunassero fino al canto del gallo, rompendo il digiuno con la celebrazione dell'eucaristia.

L'esegeta tedesco ritiene che non ci sia altra spiegazione per questo strano gesto se non il desiderio della comunità cristiana primitiva di seguire l'esempio del maestro, Gesù. Il significato di questa scelta di Cristo sarebbe poi da collegare alla figura del servo del Signore richiamato in Isaia 52,13-53,12. Per questo motivo Gesù dichiarerebbe esplicitamente in quell'ultima cena: io sto in mezzo a voi come colui che serve (Lc 22,27). E Barbaglia spiega: "Il servo non mangia perché deve servire i commensali!". Questo sarebbe anche il senso profondo della versione giovannea dell'ultima cena, che il quarto evangelista presenta invece come "lavanda dei piedi", dove Gesù si cinge i fianchi per lavare i piedi ai sui discepoli (in atteggiamento appunto di servizio).

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