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Questo articolo è stato pubblicato il 11 settembre 2011 alle ore 19:04.

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Roberto Carnero. (È autore del volume Under 40. I giovani nella nuova narrativa italiana, Milano, Bruno Mondadori, 2010).
I giovani scrittori italiani hanno stile? Parliamo di quelli dell'ultima generazione, autori spesso tacciati di essere senza stile. Ma forse la questione va spostata un po' a monte: manca lo stile, perché mancano i maestri.

Facciamo un piccolo passo indietro. Ancora nel secondo Novecento autori come Calvino, Pasolini, Fenoglio, la Morante avevano alle spalle dei maestri ben individuabili, altri scrittori sui quali si erano formati. Costoro avevano deciso di scrivere perché, prima di tutto, avevano letto. Si diventava scrittori perché si era stati e si era dei lettori.

Le cose sono andate così grosso modo fino agli anni Settanta dello scorso secolo. Dopo di che tutto è cambiato. La generazione di autori italiani che esordisce tra la seconda metà degli anni Settanta e i primi anni Ottanta (Palandri, Tondelli, Busi, Piersanti e gli altri loro coetanei) è la prima nata e cresciuta con la televisione in casa. Ragazzi che si sono formati più sulla tv, sul cinema, sui fumetti, sulla musica leggera, rock e pop, che non sui libri.

E oggi? Oggi siamo alla seconda generazione di scrittori senza maestri. Un dato che ha precise conseguenze sul piano della scrittura. Conseguenze non sempre positive. In molti casi, infatti, siamo di fronte a giovani autori allo sbaraglio, forti solo della propria esperienza e della propria fantasia, di una certa immaginazione e di una certa capacità di costruire storie, ma senza alle spalle un adeguato bagaglio di letture che sappia fornire il materiale di base sul quale elaborare un autonomo stile di scrittura.

Non parliamo dei libri Federico Moccia o di Melissa P., ma di qualche opera apparentemente un po' più "alta". Ad esempio il fortunatissimo e premiatissimo romanzo di Paolo Giordano, La solitudine dei numeri primi (Mondadori 2008). Quando mi sono trovato a chiedergli quali fossero i suoi riferimenti letterari, Giordano ha candidamente dichiarato di non avere letto molti libri, e di avere le idee più chiare sul cinema. Ciò significa che "lettore debole" più "spettatore forte" uguale scrittore di successo? Sembrerebbe di sì, anche leggendo i libri di Niccolò Ammaniti (si veda l'ultimo, Io e te, Einaudi 2010), caratterizzati – come quello di Giordano – da uno stile semplice, da un fraseggio secco, da un lessico ristretto, da una sintassi da terza elementare. Eppure il romanzo è qualcosa d'altro: narrazione di un mondo, colto nella sua complessità e nelle sue contraddizioni, attraverso una lingua che diventa essa stessa strumento di interpretazione del reale: lo stile è proprio questa cosa qui.

Dunque gli scrittori "under 40" sono tutti senza maestri, senza letture, e perciò senza stile? Per fortuna non tutto va in questa direzione. Potrei fare qui un discreto elenco, a smentire un certo catastrofismo che serpeggia tra i "lettori di professione". Mi limiterò però a qualche esempio emblematico. Senz'altro un autore come il quasi quarantenne Alessandro Piperno è di tutt'altra pasta rispetto a molti dei suoi coetani. Il suo ultimo romanzo, Persecuzione. Il fuoco amico dei ricordi (Mondadori 2010), testimonia la capacità di costruire una narrazione di ampio respiro, solidamente incentrata su una questione morale, in cui giocano un ruolo fondamentale alcune letture che hanno formato lo scrittore: Proust, Nabokov, Philip Roth. Anche un narratore come Nicola Gardini (appena over 40) è in apprezzabile controtendenza. Il suo romanzo Lo sconosciuto (uscito nel 2007 presso Sironi Editore) va considerato come uno dei libri più belli degli ultimi anni: l'autore racconta l'Alzheimer del padre attraverso una serrata riflessione sulla lingua.

Nel suo recente romanzo, Aspetta primavera, Lucky (Edizioni Socrates 2011), Flavio racconta le condizioni disperanti del lavoro intellettuale oggi in Italia attraverso una sorta di riscrittura up-to-date del capolavoro di Luciano Bianciardi, La vita agra (1962). Uno stile nervoso e sopra le righe che rende bene tutta l'insofferenza dell'io-narrante. Un po' come avviene nel romanzo di Maurizio Makovec, Céline è fuori stanza (Coniglio Editore 2009), in cui lo scrittore francese fornisce una modalità politicamente scorretta (oltre che stilisticamente efficace) per rivendicare l'autentica vocazione letteraria del protagonista. Ma anche la più giovane Silvia Avallone ha scritto il suo fortunato Acciaio (Rizzoli 2010) attualizzando il nesso dostoevskijano tra problematica etica e scrittura. Venendo poi a una narratrice leggermente più matura, si potrebbe anche ricordare l'importanza della lezione di Joyce Lussu per Silvia Ballestra, che dalla scrittrice-partigiana ha appreso proprio una lezione di stile: il legame tra il piano della letteratura e quelli della politica e dell'esistenza.

Sono, questi ultimi che ho citato, giovani autori che si sono mostrati capaci di inglobare le forme della comunicazione giovanile nell'universo narrativo. Senza perdere mai di vista, però, la specificità, l'insostituibilità e l'irriducibilità della dimensione letteraria. Cioè lo stile.

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