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Questo articolo è stato pubblicato il 18 settembre 2011 alle ore 08:13.

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Un mio antico insegnante – uno scozzese venuto in Italia subito dopo la guerra – un giorno ci raccontò in classe una storiella che aveva sentito in Giappone durante la prigionia. Un allievo riceve dal maestro il compito di dipingere un pesce. Alla fine della giornata gli porta da vedere quello che ha fatto. Il maestro esamina il dipinto con attenzione e, senza aggiungere altro, gli ordina: «Go and look at the fish». Stessa cosa il secondo e il terzo giorno, e poi il quarto e il quinto, fino al termine della settimana. Nel frattempo il pesce, fradicio, si è sfatto, ma davanti all'ultimo dipinto il maestro finalmente esclama: «Perfetto! Sono orgoglioso di te».
L'aneddoto mi è tornato in mente leggendo l'ultimo libro di Harold Bloom, The Anatomy of Influence, il cui titolo è un omaggio a Northrop Frye (The Anatomy of Criticism, 1957) e, insieme, un richiamo al proprio The Anxiety of Influence (1973), che, in primis, lo ha reso famoso; mentre il sottotitolo, Literature as a Way of Life, è una sorta di precetto zen o invito alla vita sedentaria: del tutto fuori moda, secondo avversari e nemici (soprattutto nemiche), ma utile contro l'erosione del tempo, secondo le esplicite dichiarazioni dello stesso Bloom.
Non fosse stato visto da giovane come un brutto anatroccolo – un ebreo saccente che cercava di mettere il becco, in tempi in cui T.S. Eliot «faceva il vicario in terra» – The Anatomy of Influence potrebbe dirsi un canto del cigno. Ma non è così. A ottantun anni suonati e con qualche acciacco di troppo («La chair est triste, hélas!), smagrito ma sempre garrulo e sorridente, il piccolo grande uomo ha ripreso in questi giorni i corsi a Yale, in un dipartimento in cui «fa parte per se stesso» e insegna solamente ai principianti. Ai figli e nipoti di una generazione in armi che, a suo tempo, ha preso a schiaffi Milton e Pope, e anche Shakespeare, senza averli magari neppure letti, solo perché «maschi, bianchi e per di più già morti». Una generazione di sprovveduti che non ha mai visto nella letteratura e nelle arti il cibo dell'anima ma un corpo contundente da usare in mille diverse battaglie, e che ha finito per dar luogo a quella che lo stesso Bloom chiama l'«Accademia del rancore».
«Il cinismo ormai domina. La realtà sta diventando virtuale, i libri cattivi cacciano quelli buoni e la lettura è un'arte moribonda. Ma che importa?». Chi legge in profondità – sono sempre stati pochi, ovunque – affida alla memoria le proprie conquiste e scrive di letteratura da letterato. E qui, con abile mossa, Bloom prende le distanze da tutte le scuole, tecniche e scientifiche, e iscrive a registro la figura del critico come scrittore tout court.
D'altronde il destino di Bloom è simile a quello del profeta ritrovatosi nei panni di un rabbino. Nato con la vocazione della poesia, ha intrapreso la carriera dell'interprete, cioè dell'esegeta, ed è finito tra i flutti di quel mare perennemente in tempesta che è l'industria accademica. Ma, fedele al primo amore, Bloom gli ha dedicato la vita imparando a memoria decine di migliaia di versi. Al pari del pittore giapponese che ho citato all'inizio, ha in questo modo saputo trasferire dentro di sé quel liquor vitae che a loro volta i poeti avevano trasferito dal mondo esterno nelle loro opere. Ed è, questa, una via che porta a una conoscenza, già teorizzata da S.T. Coleridge, in cui è coinvolta l'intera personalità: in cui il soggetto che conosce e l'oggetto conosciuto non restano separati, come avviene in ambito scientifico, bensì confluiscono l'uno nell'altro, grazie alla loro "co-inerenza" o "co-inherence", e danno luogo a quella che gli antichi chiamavano gnosis. Una conoscenza che è partecipazione.
Populista dichiarato, ma avverso a ogni forma di volgarizzazione, Bloom propugna una lettura "estetica" dell'opera d'arte. E, ricorrendo al protagonista di Marius, the Epicurean di Walter Pater, ricorda che il termine aesthetes – a differenza di come lo intendevano i filosofi tedeschi del '700 – vuole dire in greco «colui che percepisce», ovvero colui che vede dentro le cose in quei «momenti privilegiati» di un'opera d'arte che lo Stephen Dedalus di Joyce chiama, dal canto suo, «epifanie». Manifestazioni che portano alla illuminazione.
Paradossalmente noto come e più di molti romanzieri, Bloom non è tanto un bastian contrario – solo contro tutti – quanto una guida rassicurante dal tono oracolare. Si può non essere d'accordo con le scelte additate in quel librone sghembo e idiosincratico che è The Western Canon: The Books and School of the Ages (1994), ma si tratta di un bestseller che fornisce ciò che il lettore comune desidera da un critico. Non una delle tante dispute "teologiche" in cui gli addetti ai lavori finiscono per darsele «di santa ragione», ma il giudizio di un esperto che ci mette la faccia – sia pure con una buona dose di civetteria – e dice chiaro e tondo quali sono i libri da non perdere. «Se ci fosse dato di vivere fino a 160 anni», sostiene Bloom, «potremmo anche pensare di arrivare a leggere tutto quanto», come afferma quel professore d'inglese un po' blasé – «J'ai lu tout les livres» –, al quale è comunque da preferire, come poeta, Paul Valéry. Ma, così stando le cose, il canone – conclude Bloom – è una mera necessità empirica.
The Anatomy of Influence, che parte dal tipico spunto di natura freudiana per cui ogni scrittore cerca di emulare e superare agonisticamente un maestro, è una summa delle riflessioni di Bloom sulla letteratura, ma non è per tutti. Non è un trattato per specialisti ma si rivolge agli accoliti di una philia che, come avviene per i tifosi di una disciplina sportiva, per essere tali e poter leggere con profitto il memoir di un vecchio cronista devono almeno conoscere i nomi dei campioni di cui si parla.

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