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Questo articolo è stato pubblicato il 05 ottobre 2011 alle ore 09:26.

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«La vita può essere meravigliosa come la mia televisione». Il berlusconismo, nella sua essenza, ha a che fare con la promessa. Della felicità, del successo, del desiderio soddisfatto, dell'affermazione del sé. Il mezzo, bidimensionale, con cui questa modalità, essenzialmente narrativa è stata attuata, incrementata e resa affidabile, è la televisione.

a felicità, il successo, il desiderio soddisfatto, l'affermazione del sé e la televisione condividono il presente. Eterno, immutabile e tuttavia replicabile e, quando non replicabile, serializzabile. Tutti siamo felici allo stesso modo, ognuno soffre alla propria maniera, quindi perché cambiare?

Nel presente, il passato non ha eco e il futuro non ha ombre. Senza passato e futuro non c'è arco narrativo. Nel presente imposto e costruito dai palinsesti televisivi non è possibile sviluppo narrativo altro dal palinsesto medesimo, non esiste "lo spazio narrante" che separa la voce di chi narra dall'orecchio di chi ascolta, e che crea la narrazione. Utilizzare Berlusconi come personaggio all'interno di una storia è in fondo e prima di tutto un errore di ermeneutica.

Quando in tutte le case italiane nel 2001 arriva per posta Una storia italiana, il sottotesto è che la biografia di un uomo qualsiasi è "speciale"; quando utilizza il giornale Chi come un feuilleton in cui la sua storia personale, politica e sentimentale viene continuamente aggiornata e chiosata, il sottotesto è che tutti possono sbagliare ma gli errori ci rendono "particolari". Il berlusconismo, nella sua essenza, ha a che fare con l'essere tutti "particolari", "speciali", ma non ciascuno a suo modo, tutti allo stesso modo, il suo. Non è uno strumento narrativo è un marchio, fermo, fisso, riconoscibile.

L'impossibilità di distinguere tra l'autore e l'interprete (in senso di attore) rende dunque impossibile distinguere tra attore ed interprete (nel senso di ermeneuta). «Benché questo sia per l'interprete un momento particolarmente felice, egli sa che è ora tempo di abbandonare il testo che sta analizzando e di procedere per conto proprio» (G. Agamben, Che cos'è un dispositivo?, nottetempo, 2006). Con un passaggio fortunato di inclusione nel sé, Berlusconi, con l'utilizzo del mezzo televisivo, è l'autore e l'interprete di un immaginario del quale siamo forzatamente autori e interpreti. E questo tutti non è generazionale, è stato sufficiente aver acceso la televisione. Ed essersi meravigliati almeno una volta. Il berlusconismo, nella sua essenza, ha a che fare con la meraviglia. La meraviglia lascia attoniti e dunque impedisce la dialettica.

«Il problema è che mentre Foster Wallace compie la sua esperienza di massa che tanto fa ridere, a bordo di un villaggio turistico natante, io faccio esperienza di massa che mi fa soffrire perché io non sono assolutamente differente dalla massa. Io so che sono io e che sono loro. Siamo tutti» (Giuseppe Genna, Italia De Profundis, minimum fax, 2008). Procedere per conto proprio, come ha scritto Agamben, significa in questo contesto ammettere che il berlusconismo e Silvio Berlusconi medesimo hanno creato un contesto dal quale è difficile uscire, ma nel quale è possibile trovare strade che non siano celebrative, che non siano denigratorie, ma che semplicemente raccontino. In questa accezione raccontare è un gesto – il solo gesto – coraggioso, sovversivo, necessario.

Raccontare, nel berlusconismo, vuol dire aggiungere l'asse del tempo alla stretta cartesianizzazione bidimensionale dello schermo televisivo, dove l'unica grandezza è lo spazio – il tempo non passa, la fiction allontana la morte. Vuol dire far ripartire gli orologi, lasciare che cose e persone invecchino, cambino, muoiano. Raccontare significa restituire normalità a una vita politica, sociale, culturale, dunque narrativa, che è diventata una successione di superlativi. Il berlusconismo, nella sua essenza, ha a che fare con il sensazionalismo. Il superlativo non ammette repliche, dunque ancora non è dialettico.

«In ogni caso ciò che l'assoluto esclude è "il relativo". Il relativo è ciò che costringe al confronto e induce a pensare. L'assoluto, invece, comanda e pretende obbedienza, assolutamente» (G. Zagrebelsky, La lingua del tempo presente, Einaudi, 2010), d'altronde come ha scritto Agamben nel già citato Che cos'è un dispositivo?, il linguaggio è il dispositivo più antico e il dispositivo è una connessione col potere.

Tuttavia quando si apre Troppi paradisi (Walter Siti, Einaudi 2006) il meccanismo di indentificazione Berlusconi-contesto-sé viene scardinato da quella che Yourcenar definiva «l'io in testa a un'opera dalla quale volevo cancellare me stessa», e proprio dal linguaggio. Nell'avvertenza a Troppi paradisi si legge «(…) la sua è una autobiografia di fatti non accaduti, un fac-simile di vita. Gli avvenimenti veri sono immersi in un flusso che li falsifica; la realtà è un progetto, e il realismo una tecnica di potere.

Come nell'universo mediatico, anche qui più un fatto sembra vero, più si può stare sicuri che non è accaduto in quel modo». Walter Siti, come Giuseppe Genna (e.g. cit. e Dies Irae, Rizzoli, 2006), come Teresa Ciabatti (I giorni felici, Mondadori, 2008), come Tommaso Pincio (e.g. Lo spazio sfinito, minimum fax, 2010 Cinacittà, Einaudi, 2008), per scardinare il meccanismo di un linguaggio che impedisce una narrazione altra, fanno, in diversi modi e diverse gradazioni di immagini, grammatica, ritmo, quello che Des Esseintes faceva nella casa di Fontaine-aux-Roses «Dopo i fiori finti che imitavano i fiori veri, voleva i fiori veri che imitavano i fiori finti» (Joris Karl Huysmans, A ritroso, 1884). Rendere autentica la finzione, rifingendola, significa raccontare, quando si vuole raccontare il presente. E non uno qualsiasi, il proprio.

Penso a Il mondo deve sapere di Michela Murgia (Isbn, 2006) che non ci sarebbe stato senza la frammentazione del mercato del lavoro voluta e ottenuta dal primo governo Berlusconi e dove pure, tra l'altro si legge «Le risposte sono diverse, confuse, tra chi ha bisogno di denaro e chi ha voglia di fare altri tipi di mestieri, lavori veri» o di uno della vendita al telefono come «spot dal vivo della durata di un'ora e trenta minuti», e che per me rimane un romanzo che ha trovato una strada di rappresentazione dei cascami dell'immaginario imposto da Berlusconi senza utilizzarne gli schemi linguistici, ma assumendo una posizione laterale, e dunque un punto di vista. Il berlusconismo, nella sua essenza, ha a che fare con l'univocità del punto di vista.

Penso al recentissimo Le ceneri di Mike di Giancarlo Liviano D'Arcangelo (Fandango, 2011) che ricostruisce, come se non ne fosse a conoscenza, come un nativo pretelevisivo, il brocardo del video e cioè che quello che vedi è quello che ottieni, e dove quello che vedi è tutto quello che esiste, e dove si legge «Mike, se avesse potuto conoscere il suo destino in anticipo, avrebbe accettato di subire su di sé il cinismo endemico del meccanismo mediatico, intuendone l'inevitabilità».

Penso a Tommaso Pincio che definendosi umile trascrittore riporta sul suo blog "Sono il mortale che ha avuto più processi nella storia dell'uomo e anche, credo, nella storia degli extraterrestri, se anche loro avranno una cosiddetta giustizia che li giudica" (17 Aprile 2011) e riquadrando i discorsi del premier li rende a lui estranei e propri a tutta la letteratura che uno ha amato. E quindi fa sì che ciascuno si riappropri della meraviglia, del sensazionalismo, della felicità, senza avere il timore che passi, ma come se il passare, il trascorrere, ne facesse parte. Se riquadrare, come credo, è raccontare.

Penso a Teresa Ciabatti che, con uno scarto di realtà, raccontando Lo zecchino d'oro, la promessa di felicità eterna e imperitura, ha raccontato bene il berlusconismo: «Ogni volta Agnese aveva un aneddoto diverso su Ginevra Perrone. Sembrava che la vita della sua amica fosse fatta solo di esperienze incredibili, incontri memorabili, avventure inenarrabili. Perché quella volta che hanno creato una Tania solo per lei?» (cit.), ancora a latere.

Penso a tanti altri libri che ho letto o che non ho letto e a Giuseppe Genna che parla di narrativa come di antimetafisica della luce berlusconiana. «(…) percepire questo buio non è una forma di inerzia o di passività, ma implica un'attività e un'abilità particolare, che, nel nostro caso, equivalgono a neutralizzare le luci che provengono dall'epoca per scoprire la sua tenebra, il suo buio speciale, che non è, però, separabile da quelle luci». (Giorgio Agamben, Che cos'è il contemporaneo?, nottetempo 2008). E penso a me, che non faccio altro che leggere e voglio continuare a farlo.

* Chiara Valerio è nata a Scauri nel 1978. Dopo aver conseguito una laurea in matematica, ha ottenuto un dottorato. Oggi vive e lavora a Roma. È redattore di Nuovi Argomenti e di Nazione Indiana.  Questi i suoi libri: A complicare le cose (Sistema Editoriale SE-NO 2003, Robin 2007), Fermati un minuto a salutare (Robin 2007), Ognuno sta solo (Perrone 2007), Nessuna scuola mi consola (Nottetempo 2009), La gioia piccola d'essere quasi salvi (Nottetempo 2009), Spiaggia libera tutti (Laterza 2010).

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