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Questo articolo è stato pubblicato il 01 ottobre 2011 alle ore 19:57.

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Non è questione di buoni romanzi o cattivi romanzi. Da un po' di tempo, la sfida – ambiziosa – di narrare il presente (per confutarlo?) sembra incantare più di una generazione di scrittori: ma qualcosa non torna, gira a vuoto. Il sogno – magari inconfessato – di scrivere il «Grande romanzo italiano» e chiudere con un ultimo esorcismo il "ventennio" berlusconiano coi suoi guasti viene accarezzato con ostinazione, impegno, desiderio, ma senza la lucidità necessaria, senza distanza, e l'effetto complessivo è deludente. Per non cavarsela con la vecchia battuta di Karl Kraus, troppo sferzante («Hitler – diceva – non mi fa venire in mente niente...» e vale per il Potere in generale), bisognerebbe capire dove inizia questo "blocco", da cosa nasce; e quale preistoria celi, o subisca.

Si può azzardare un'ipotesi secca, da complicare. Non è questione di buoni scrittori o cattivi scrittori ma di consapevolezza storica e antropologica, politica. Gli indizi o i sintomi si moltiplicano all'infinito – è una gran giostra – ma tocca semplificare, tagliare corto. Il termine «immaginario», per esempio, ha preso funzionare come una giustificazione o come un alibi, e buoni e cattivi scrittori, "vecchi" e "giovani", intonano la stessa geremiade recriminatoria. Del resto, è anche un tentativo di autodiagnosi. Si scrive, si sogna e racconta e pensa all'ombra degli anni Ottanta. Paolo di Paolo (che ha appena scritto un romanzetto-collage sull'Italia... berlusconiana) evocava in un'intervista recente la colonizzazione dell'immaginario da parte di tivvù commerciali e videogiochi. Antonio Scurati (che ha appena scritto un romanzone apocalittico sull'Italia... post-berlusconiana) insiste e rincara la dose, svariando sul tema quanto basta. «La mia è la prima generazione allevata in una bolla mediatica, in cui prevale un immaginario violento. Siamo stati invasi dalle guerre, dalla cronaca nera, dai racconti d'orrore. Protetti tuttavia, da un guscio che impediva di fare vera esperienza di ciò che vedevamo. È nata così una sindrome post-traumatica». Di un «trauma senza evento» parla anche Nicola Lagioia, di una «catastrofe per il sentire comune», e, ancora una volta, il suo riportare tutto a casa vuol dire fare i conti col vuoto troppo invadente degli anni Ottanta.

Ci siamo, più o meno. È come se tra Colpo grosso (o Drive-in) e la Prima guerra del Golfo – insomma tra Umberto Smaila e Baudrillard – si sia materializzata una nuova dimensione mentale obbligatoria; un immaginario, appunto, intenso come liquido amniotico, clima, atmosfera; qualcosa di subìto in piena passività, senza arte o scelta. Non è un assunto scontato o indiscutibile e il tono autoassolutorio e tranchant con cui la parola è pronunciata è molto dubbio. Dici immaginario è già sei coperto dall'alibi perfetto. Invaso, colonizzato, presidiato, l'immaginario è (sarebbe) l'orizzonte obbligato, la premessa.

Se ne può parlare. Mitologie, simboli, icone, concetti si incrociano a diversi livelli, più sottili, e c'è sempre un margine di soggettività (e responsabilità creativa, intellettuale) a complicare il quadro, a scombussolarlo. Per dirla con una battuta secca e andare al sodo: ognuno ha l'immaginario che si merita.

Quanto agli anni Ottanta, il cliché andrebbe rivisitato in termini critici. I vaticini sulla «mutazione antropologica» o l'avvento totale dello spettacolo – le profezie di Pier Paolo Pasolini o Guy Debord – hanno perso qualsiasi funzione evocativa nel momento stesso del loro avverarsi e l'ipotesi storiografica che vede in quel decennio («basso e disonesto» quant'altri mai, occorre dire) una svolta radicale e la fine e il re-inizio della Storia è un po' forzata. Qualcosa è successo, e sempre accade qualcosa, è inevitabile, ma nessun salto nel buio e nessuna amputazione, nessuna kehre. I profeti di un tempo han lasciato il posto ai traumatizzati senza trauma vittime del genio ruffiano di un Antonio Ricci o di Rai3. Non sarebbe propriamente un dramma o una catastrofe ma poi è iniziato il "ventennio" e forse il problema è questo, ancora irrisolto. Gli scrittori si sentono impegnati a «narrare il presente», nuovamente, ma lo sguardo di Medusa li paralizza.

Che venga chiamato con nome e cognome o citato per velate allusioni cambia poco. L'Italia di Berlusconi, il paese della «battuta perfetta» (Carlo D'Amicis) o di Colpo Grosso: raccontare un contesto vissuto come degenerazione in atto è un paradosso e poi la realtà trascende la fantasia, la rende vana. Il mito insegna che chi fissa in volto Medusa si fa di pietra. Per mozzare la testa della gorgone occorre lo scudo di Perseo; guardare altrove. Ma la trappola è più insidiosa – è un labirinto – e alla letteratura si chiede di lasciare a casa lo scudo, di non pensarci. La costante, la pressante richiesta di narrare il presente è vincolante e dopo anni di ombelicali elegie e melensa auto-fiction, la rinnovata intenzione di misurarsi con la storia-in-atto sta producendo un canone narrativo direi ambiguo dove l'intenzione è regolarmente smentita dai risultati, ribaltata.

Il fiato corto di questo éngagement ritrovato sconta l'ipoteca di quell'ipotesi storiografica (e politica) convenzionale che ormai fa degli anni Ottanta l'alfa e l'omega e immagina micidiali traumi (senza trauma) lì dove al massimo si sono prodotte sbucciature superficiali, lievi graffi. A parte che il più delle volte la Storia davvero è solo un pretesto, lo scenario contro cui proiettare le solite confessioni ultra-ordinarie, le pigre avventure di un "io" piccolo-borghese, il guaio vero è appunto l'idea di Storia latente, presupposta. La cronaca (la "comunicazione") diventa l'unico metro e lo scrittore cede al ricatto dell'attualità senza avvedersene. Chi in modo più scoperto chi invece con maggior accortezza e miglior mestiere, in molti si stanno accanendo a narrare l'inizio del buio (e perché è ancora buio e perché siamo ancora confusi e spensierati) ed è abbastanza impressionante accorgersi come ormai la storia sia solo sfondo inerte, ripetitivo, una semplice sequenza di eventi, incidenti e fatti ricorrenti. È come se lo scrittore disponesse di un kit di montaggio in serie, brevettato.

È la tecnica del collage, una sciagura. Vermicino, le tv commerciali, l'Heysel, il sequestro Moro, il terremoto (rivisitati sempre attraverso gli stessi ritagli di giornale, gli stessi reperti filmati su YouTube) diventano le quinte mobili, le scene sempre cangianti e sempre uguali, di un'unica narrazione collettiva dentro cui costruire il proprio punto di vista o (quando va bene) il proprio stile. È una storia-cronaca, ancora una volta qualcosa di subito, come "l'immaginario" (o Berlusconi) e, ancora una volta, Medusa ha la meglio.

Ma non è un percorso obbligato, non è un destino. Si può fare altrimenti; si può sempre. Recuperare lo "scudo di Perseo" non vuol dire distogliere definitivamente lo sguardo ma affinarlo. Tra il proprio lavoro e la comunicazione, il suo linguaggio, tra il proprio lavoro e i media, la "cronaca", occorre frapporre un cuneo, creando uno scarto. L'arte non deve documentare ma inceppare e sovvertire, sabotare. Al ricatto dell'attualità bisognerebbe riuscire a opporre un deliberato rifiuto della contemporaneità (ovvio: dialettico), di questa falsa realtà che oggi ci è imposta. Nessuna torre d'avorio, naturalmente: farsi non-contemporanei vuol dire stare ai propri tempi, senza subirli.

Qual è il romanzo che, a tuo parere, rispecchia meglio l'essenza dell'epoca berlusconiana?
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