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Questo articolo è stato pubblicato il 09 ottobre 2011 alle ore 18:35.

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A vedere le neomamme uscire dagli ospedali con i nuovi nati negli ovetti della Chicco verrebbe da pensare che nascere sia oggi un processo più o meno uguale per italiani e stranieri. Tutti omologati dalla globalizzazione, dai progressi scientifici, dalla medicalizzazione e dalle strutture ospedaliere, grandi contenitori neutri di persone di classi sociali, livelli di istruzione, religioni ed etnie diverse.

Ma così non è: anzi, è proprio all'interno delle anonime mura degli ospedali — e specie durante un processo disarmante e coinvolgente come il parto — che si ritorna a essere se stessi, unici e irripetibili. Ci si appella al proprio Dio, a tabù, rituali e inibizioni della casa natale. E il personale medico si fa mediatore culturale e operatore di frontiera, adattando, di volta in volta, la pratica all'utenza sempre più diversificata ed esigente. Diversificata perché proveniente da tutto il mondo. Esigente perché così sono diventate soprattutto le italiane: madri sempre più vecchie, sempre più colte e sature di informazioni captate dal passaparola e su internet. E in genere poco disposte a partorire soffrendo.

All'ospedale Maria Vittoria di Torino la percentuale di parti di donne straniere si aggira intorno al 60 per cento. Da sempre «ospedale di frontiera», come lo definisce Angela Mondelli (ostetrica coordinatrice del Dipartimento materno infantile che al Maria Vittoria ha passato 40 anni), oggi lo è più che mai, in molti sensi. La frontiera è quella simbolica e universale del corpo, rappresentata dal passaggio del feto alla vita fuori dall'utero, e la frontiera è anche quella dell'identità, dove cittadinanze e appartenenze disparate vengono ricostruite e rinegoziate. Fondato alla fine dell'Ottocento il Maria Vittoria è stato dapprima l'ospedale della frontiera tra città e campagna, che accoglieva le contadine piemontesi in cerca della fabbrica, per poi accogliere chi attraversava la frontiera Sud-Nord, fino a oggi, frontiera tout court. È qui che le culture si riappropriano del parto, anche in modo violento, reinterpretandolo a seconda di credenze e costumi, dinnanzi a un personale ostetrico sempre più deciso a lasciare da parte l'intervento farmacologico e ad assecondare il processo fisiologico, comunque esso si svolga in ciascuna cultura. Non si tratta di stereotipi ma di abitudini: per le donne dell'Africa subsahariana il travaglio viene vissuto attraverso il movimento disinvolto del corpo nello spazio della sala parto, il battito invasato di un ritmo ossessivo, un canto profondo e viscerale.

Le rom sono invece le più giovani e attive, a 20 anni sono già al quinto figlio: riescono a massaggiarsi e a dilatarsi manualmente da sole, mostrando una conoscenza approfondita del corpo. È da pochi anni che partoriscono in ospedale perché nei campi, specie in inverno, il rischio di perdere il bambino è elevato. Le cinesi gestiscono il dolore nel più assoluto silenzio, e non vogliono tenere il neonato tra le loro braccia prima che venga pulito dalle impurità che il passaggio del nascere porta con sé. Le ostetriche ormai lo sanno: solo dopo averlo lavato consegnano il neonato alla mamma. L'esternazione del dolore dipende da quanto una donna è disinvolta o inibita: in questo le arabe e le italiane sono simili, tendono a vivere passivamente il travaglio ma a esternare di più la sofferenza. I casi più difficili sono le infibulate, in genere somale o egiziane. Durante il parto la mutilazione complica il passaggio finale del bambino e triplica il dolore. Quando tutto è finito le ostetriche si raccomandano: «Alla piccola niente mutilazione, prometti?». E loro danno la loro parola.

Anche gli uomini si trovano a fare da ponti culturali alla nascita del loro figlio in un Paese straniero. In genere la prima azione dei papà verso i nuovi nati è la benedizione. Così gli uomini maghrebini in sala parto accolgono i bimbi cullandoli e sussurrando all'orecchio la shahada, la professione di fede dell'Islam, mentre i papà nigeriani danno il loro benvenuto urlando «Jesus is great! Thank you Jesus!». Senza dubbio il modo in cui i neonati vengono al mondo la dice lunga sulla società, sui suoi valori, le sue paure, le mode del momento. In un ospedale di frontiera il confronto tra italiane e straniere è automatico, e si tratta di differenze abissali. In primo luogo l'età media delle partorienti, che in Piemonte è per le italiane di 32,8 anni, leggermente superiore rispetto alla media nazionale di 32 anni.

Raccontano le ostetriche: «Abbiamo ricominciato a vedere le partorienti ventenni con l'arrivo delle rumene: erano anni che non si vedevano più le giovani qui dentro». E questo influisce sul modo di partorire: più le mamme sono vecchie, più hanno paura del dolore e più sono i problemi durante il travaglio. Inoltre tutte le mamme hanno assieme alla valigia anche un bagaglio culturale fai da te sulla gravidanza e parto, formatosi sulle chat e sui libri di yoga. Consapevoli sino all'esasperazione, la gravidanza l'hanno cercata e vogliono che i risultati siano perfetti: «È diventato un po' come andare al supermercato — dice il dottor Biagio Contino, che ha iniziato negli anni Ottanta facendo partorire le donne in casa -. Le italiane vogliono avere neonati senza difetti e, se possibile, senza sopportare troppo dolore».

Paura della sofferenza e delle "anomalie" sono oggi i nodi centrali del parto oggi che sfociano nel diffuso desiderio del cesareo anche quando non è necessario: «Troppe donne vogliono il cesareo per scelta. Passo metà del mio tempo a convincerle ad affrontare un parto naturale, ma questo vuol dire sradicare nove mesi di aspettative e congetture», spiega la dottoressa Raffaella Enria. Avere tutto sotto controllo, programmare la nascita nel giorno che si vuole, finire in venti minuti, sembra più allettante ed è sicuramente più comodo che partorire con dolore, maledizione del peccato originale ormai superata.

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