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Questo articolo è stato pubblicato il 15 ottobre 2011 alle ore 19:46.

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illustrazione di Antonio Rubinoillustrazione di Antonio Rubino

Dato che le facoltà umanistiche offrono pochi sbocchi lavorativi, sarebbe il caso che alle facoltà umanistiche si iscrivessero in pochi, e non in tantissimi come succede oggi. Questo è più o meno tutto ciò che c'è da dire sull'argomento, se non fosse che questa ragionevole conclusione va contro gli interessi, o i supposti interessi, di tutti i soggetti coinvolti in quello che nell'antilingua della burocrazia si chiama "processo formativo".

Vale a dire che, per motivi diversi, questa ragionevole conclusione è serenamente ignorata dallo Stato, dalle università e dagli studenti. Che lo Stato voglia ignorarla è comprensibile. Che altra possibilità c'è, infatti? Da un lato, vogliamo aumentare il numero dei laureati per colmare il nostro divario rispetto agli altri paesi europei, e un laureato in Filologia romanza pesa quanto un laureato in Ingegneria. Dall'altro, nonostante la riforma, in Italia l'università resta in sostanza l'unico canale di formazione post-secondaria. I ragazzi devono pur fare qualcosa. La scuola superiore non li ha preparati a un lavoro, e un relativo benessere permette a quasi tutti i diciottenni di non doverlo cercare, un lavoro: c'è tempo. Resta lo studio. E dato che le altre facoltà sono più difficili, o hanno dei test d'ingresso selettivi, bisogna che almeno le porte delle facoltà umanistiche restino spalancate. Che s'iscrivano tutti, dunque, indipendentemente dalle proprie soggettive capacità e dalle oggettive possibilità d'assorbimento nel mondo del lavoro. Poi qualche santo sarà.

Secondo soggetto, i docenti. Dato che la quota di finanziamento per ateneo è proporzionale al numero degli studenti, è difficile che le facoltà si mettano a lottare per averne di meno. Più studenti s'iscrivono più soldi arrivano, più insegnamenti si attivano. Perciò anche il famoso "orientamento universitario" finisce per essere, in sostanza, pubblicità che le facoltà (tutte) fanno a loro stesse in nome del proprio interesse, proprio interesse che non necessariamente coincide con l'interesse dello studente: «No, tu sei negato, fai qualcos'altro» non è una formula che sia contemplata nella retorica dell'orientamento universitario. Per questa ragione è un pio desiderio immaginare che le facoltà umanistiche decidano motu proprio una politica di assoluto rigore, bocciando agli esami tutti quelli che meriterebbero di essere bocciati: è difficile che una corporazione (qualsiasi corporazione) scelga di suicidarsi.

Terzo soggetto, gli studenti. Alcuni studenti s'iscrivono alle facoltà umanistiche perché non sanno che altro fare, e scelgono la via che a loro sembra più facile e che spesso è, di fatto, più facile. Benché molti pensino il contrario, questi studenti depistati e svogliati sono una minoranza. I più, sono studenti seri e motivati. Alcuni tra questi hanno fatto un buon liceo e sono pronti ad approfondire le materie che già al liceo preferivano. Non sono moltissimi, e non sono necessariamente i migliori. A volte sanno molto a paragone dei loro coetanei ma hanno intelligenze pigre e poco originali, e non hanno e – quel che è peggio – non vogliono avere nessuna esperienza del mondo che sta al di fuori delle aule scolastiche.

La maggior parte degli studenti seri e motivati non ha fatto "un buon liceo" ma proviene da scuole nelle quali l'istruzione umanistica è più carente: i professionali, i tecnici, l'arcipelago di scuole sperimentali che le varie riforme hanno prodotto. Che fare con questi studenti? Sono la prova dell'esistenza di un diffuso desiderio di istruzione. È un desiderio sacrosanto, preziosissimo per la società, e su cui è possibile costruire. Sembra non risentire del dumbing down indotto dai media; anzi, sembra crescere a mano a mano che il dumbing down dei media si fa più sfacciato. Sono spesso studenti molto diligenti, e persone anche umanamente eccezionali, disposte a fare veri sacrifici per imparare cose che, lo sanno benissimo, non li aiuteranno molto quando si tratterà di trovare un lavoro.

Ma il bagaglio di nozioni che posseggono quando entrano all'università è molto leggero. E non è solo questione di quanto poco sanno, ma – soprattutto – di un atteggiamento, di una forma mentis che è inadeguata allo studio. Questi studenti cambiano, maturano, crescono di mese in mese, ma non riescono veramente a recuperare il ritardo. Al termine dei loro studi pochi di loro troveranno un lavoro e – questa è la cosa più grave – pochi di loro meriteranno di trovarlo. Perché partivano da un punto troppo basso (purtroppo non tutto, sempre, è possibile, e ci sono muri che a una certa età vanno semplicemente accettati); o perché, e vengo al punto che mi sta più a cuore, nessuno ha mai chiesto loro di fare uno sforzo, nessuno ha mai chiesto loro di darsi veramente da fare per superare una soglia.

Un esame d'ingresso alle facoltà umanistiche potrebbe essere questa soglia. Un esame selettivo, non un test orientativo. Per esempio, un esame sul programma scolastico svolto negli ultimi tre anni in determinate materie; o su un certo numero di libri fondamentali (sì, quei libri che «bisognerebbe aver letto al liceo»). A chi ha fatto (bene) il liceo basterebbe, per prepararsi, un pezzo dell'estate. A chi ha fatto una scuola professionale servirebbe di più: un recupero durante l'ultimo anno scolastico, forse un anno in più di studio per conto proprio. Fatti suoi. Sarebbe un investimento ragionevole, utile anche per chi lo fa, per capire se è davvero quella la strada che vuole intraprendere o se è soltanto un'infatuazione, un equivoco. Una soglia. E chi non la supera rimane fuori. Rimanere fuori a 18 anni non è una tragedia. Le alternative, a quell'età, esistono. E non passare un esame, trovare sulla propria strada qualcuno che dice «No, tu non puoi fare questi studi», può essere una fortuna. Se invece la soglia la si trova, insuperabile, a 24 o 25 anni, le cose sono infinitamente più difficili.

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