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Questo articolo è stato pubblicato il 15 ottobre 2011 alle ore 19:46.

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illustrazione di Antonio Rubinoillustrazione di Antonio Rubino

Una soluzione come quella che ho appena proposto dovrebbe anche aiutarci, in progresso di tempo, a diminuire il numero dei laureati in discipline umanistiche. Il che mi porta alla seconda questione che vorrei sollevare. Il dibattito in corso sul ruolo del sapere umanistico oggi non mi sembra bene impostato. Che cosa dobbiamo volere? Che cosa non dobbiamo volere?

Dobbiamo volere l'incremento della cultura diffusa. Vogliamo che le persone leggano più libri, e libri migliori, che vedano film decenti, che s'interessino al lavoro scientifico che sta dietro ai microchip dei loro cellulari; vogliamo che, quando vedono Voyager su Rai 2, sghignazzino. Ora, per quanto possa dispiacere, la cultura diffusa non si accresce, in primo luogo, attraverso iniezioni di cultura diffusa. Una retrospettiva di Kubrick in lingua originale, una lussuosa stagione concertistica, un tour gratuito dell'osservatorio astronomico, sono tutte cose benedette, ma non cambiano molto la situazione. Si chiama: preaching for the saved, predicare a quelli già salvati. Oppure si chiama: predicare a quelli che fanno solo finta di ascoltare, perché il Mondo li ha convinti che bisogna fare così.

Per migliorare la cultura diffusa bisogna procedere per gradi, e questo vuol dire che gran parte dello sforzo va fatto non nel settore della cultura genericamente intesa ma nel settore dell'istruzione. Ma anche qui bisogna intendersi.

Nel suo saggio Non per profitto, Martha Nussbaum lamenta un deficit di cultura umanistica: per affrontare la crisi presente e le sfide future occorrerebbero più letterati, più filosofi, e insomma più persone versate nella cultura umanistica, perché è questa la cultura davvero vitale per una società che si voglia civile. Il favore con cui questo libro pieno di retorica e buoni sentimenti è stato accolto da molti non mi pare un buon segno. Può darsi che una ricetta del genere possa avere un senso negli Stati Uniti, o in certe parti degli Stati Uniti, dove il disprezzo per la cultura disinteressata è più forte che da noi. Ma in Italia? In questo paese di avvocaticchi con le loro plaquettes di poesie pubblicate in proprio? In questo paese dove ogni villaggio ha un assessore alla cultura, e ogni assessore si porta dietro uno stuolo di geniali pittori, scultori, esegeti di Dante, filosofi da pubblica concione?

A me non pare che la strada indicata dalla Nussbaum sia quella giusta. Se proprio vogliamo parlare della miscela che dovrebbe formare la cultura degli italiani, e ammesso e non concesso che abbia senso dosare le percentuali di "umanesimo" e quelle di "scienza", mi pare chiaro che è nell'istruzione tecnico-scientifica che il nostro paese è particolarmente carente.

Questo non significa che l'istruzione umanistica non sia fondamentale. Lo è, ma bisogna intenderla in un modo sensato. Intanto, per tornare a quanto ho già accennato, è precisamente istruzione, e non genericamente cultura: sono le lezioni che si fanno a scuola e all'università, non sono le conferenze, le mostre e i concerti con cui i cittadini riempiono il loro tempo libero. Ben vengano questi loisirs ma, per cominciare, io non sono così convinto che il loro costo debba gravare sui bilanci delle amministrazioni pubbliche. Mi pare che i soldi che spendiamo per questo genere di cultura non siano pochi ma troppi. Invece è chiaro che l'istruzione umanistica ha un ruolo cruciale a scuola, anche e soprattutto nelle scuole tecniche e professionali. In questo modo, migliorando l'istruzione di base, è possibile formare dei cittadini migliori, che all'idea di cultura – di cultura personale, di applicazione e studio – resteranno affezionati anche una volta usciti dalla scuola secondaria.

Ma, una volta usciti dalla scuola secondaria, non ha senso che s'iscrivano in massa alle facoltà umanistiche. È questo che non dobbiamo volere. L'acculturazione di massa è un giusto proposito ma non può essere il proposito dell'università. L'acculturazione di base deve avvenire prima. L'Italia non ha bisogno di legioni di laureati in filosofia. Ha bisogno, lo ripeto, di una buona cultura diffusa, di una coscienza civica diffusa. Ma questo è tutt'altro discorso: e l'aiuto che le facoltà umanistiche possono dare in questo senso consiste soprattutto nel formare ottimi insegnanti e intellettuali che riescano a innalzare il tono delle professioni pubbliche (giornalismo, politica), non consiste nel laureare in Lettere l'intera nazione.

Possiamo dire che l'università stia adempiendo questo compito? Difficile generalizzare. Ma la mia impressione è che l'università ratifichi l'esistente, dando poco a tutti: poco agli studenti bravi, che restano bravi senza però sviluppare del tutto le loro qualità, perché le qualità si sviluppano soprattutto quando ci sono degli ostacoli da superare, e di ostacoli in questa università ce ne sono troppo pochi; e poco agli studenti mediocri, che restano mediocri ma superano lo stesso gli esami, e si laureano lo stesso, perché a tutti fa comodo così. Ma a lungo andare, in realtà, questa situazione non fa comodo a nessuno, e meno che meno alla società, che ci mette i soldi.

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