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Questo articolo è stato pubblicato il 21 ottobre 2011 alle ore 15:44.

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Non mi pare che il professor Giunta sollevi solo il problema dell'introduzione di un numero chiuso nelle facoltà umanistiche. Credo che la crisi di cui egli parla sia di proporzioni ben maggiori, direi immani, perché cela in sé, mi pare, molti fattori fra loro intrecciati (in ordine crescente di complessità): la necessità di un ripensamento della didattica nelle facoltà universitarie umanistiche; la creazione di una sinergia tra scuola superiore e università; una crisi di identità da parte di chi insegna letteratura; una più generale ridefinizione degli statuti epistemologici delle discipline umanistiche, che mi paiono piuttosto smarrite nel mondo contemporaneo; una - credo - vera e propria crisi di civilità.

A me, in ordine sparso, vengono in mente alcune cose. Non ho la presunzione di proporre soluzioni (ho alcune idee al riguardo, ma anche molti dubbi): mi limito a individuare alcuni problemi.

La cultura diffusa non si sostiene con la cultura diffusa, ma in primo luogo con l'istruzione, dice il professore. Parrebbe contraddittorio allora proporre il numero chiuso in quelle facoltà in cui, teoricamente, si insegna ciò che dovrebbe servire ad ogni uomo, a prescindere dal suo impiego e ruolo sociale. Supponiamo però di introdurlo. Come risolvere il problema della "cultura diffusa"? Qualcuno propone il modello americano: negli Usa, anche all'università, ci si continua a formare su tutto il fronte delle conoscenze, per cui anche il futuro fisico o biologo dovrà seguire un corso di filosofia o "liberals" (è risaputo, ma lo si legge ancora una volta nel pamphlet della Nussbaum, che giustamente non piace al professore, perché intriso di tante buone intenzioni e fin troppo politicamente corretto). Ma quel, diciamo così, correttivo, negli Usa è necessario perché hanno scuole secondarie di contenuto assai generalista e livello francamente basso. Se in Italia, partecipi in questo di una più generale tradizione europea, non abbiamo finora avuto bisogno di quel correttivo, è perché abbiamo una scuola secondaria dove la formazione è assai più solida (che bello, a questo proposito, il libretto di Lucio Russo, La cultura componibile, che difende il "vecchio liceo" e il greco, lui scienziato). Peccato che le sirene del mondo anglosassone siano sempre attraenti ed ogni volta che ci si siede intorno a un tavolo per decidere "che fare?", la parola d'ordine sia "fare come in America" (talvolta si aggiunge anche "Inghilterra", per il gusto di una spolverata di "good old Europe" e per non sembrare troppo filoamericani). Se "fare come in America" significa trasfomare le nostre scuole secondarie in modelli (magari peggiorati) delle loro, avremmo bisogno di un buono psichiatra, perché forse siamo affetti da manie suicide.

Negli interventi del ministro Gelmini sulla scuola, fra le macerie dei tagli, che rendono ridicola la parola "riforma", si intravede tuttavia un piccolo lume di logica, ed è una logica aberrante: primo, riduzione del latino nei licei scientifici (senza un aumento vero del peso della matematica: rispetto al PNI, bellissima sperimentazione, che potenziava l'impianto tradizionale con più matematica, informatica, scienze e fisica, le ore di matematica sono diminuite); secondo, licei senza latino (essendo questo una materia caratterizzante il profilo liceale, una contraddizione in termini. E - ci crederete? - vanno forte, perché il latino spaventa ed è roba vecchia che non ha più senso studiare); infine, introduzione della "geostoria" (sic), ovviamente per un ammontare di ore inferiore alla somma delle precedenti ore di storia e geografia. Tutto ciò tenuto insieme dall'idea di fondo che un liceo con meno umanesimo sia un liceo più al passo con i tempi. L'arte, la letteratura, la filosofia, la storia, intesi come zavorre, di cui certo non liberarsi, ma comunque decisamente alleggerirsi. Colpi bassi sul corpo di quel tipo di scuola che ci ha consentito di difendere, sempre più a fatica, una "cultura diffusa". Se domani anche il liceo smarrirà definitivamente la sua identità, dubito che avremo migliori studenti universitari. Insomma, se oggi gli studenti che escono dal liceo sembrano meno solidi del passato, si ricordi che si può ancora peggiorare, e molto.

Tutto bene fin qui, allora? Ovviamente no. Difendere il valore del curricolo del liceo tradizionale e la sua impostazione umanistica non significa difendere ciò che difendibile non è più. C'è una quantità di pratiche ormai inerziali che infesta l'insegnamento. E non mi riferisco alle singole pratiche di singoli docenti (ce ne sono di bravi e perfino ottimi), ma di un'inerzia di sistema e di costumi tradizionali, che in ogni caso influenza anche i migliori. Mi limito a parlare della sola letteratura e di uno solo dei dogmi didattici ereditati e mai decisamente e con coraggio messi in discussione: nel biennio, analisi dei generi letterari (narrativa in prima, poesia e teatro in seconda), con gli strumenti di dissezione forniti da narratologia e strutturalismo; nel triennio, storia della letteratura, di impostazione desanctisiana e crociana. Insomma: ai ragazzini più piccoli "strumenti d'analisi del testo", oggettivi e sempre validi, senza storia, perché "prima bisogna saper leggere qualsiasi testo, poi, eventualmente, avrai il diritto di gustare ciò che di grande è stato scritto sugli eterni problemi dell'uomo" (in parte anche vero, ma non è un assoluto); ai ragazzi più grandi, finalmente, l'ingresso nel sancta sanctorum dei Padri e del Canone.

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