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Questo articolo è stato pubblicato il 23 ottobre 2011 alle ore 08:13.

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La scomparsa di Andrea Zanzotto, la sua uscita dalla scena del mondo, investe non soltanto la poesia ma la figura stessa della cultura. Poeta fra i maggiori della seconda metà del Novecento, e non solo per l'ambito nazionale, egli ha infatti fondato l'esercizio poetico su un immenso retroterra culturale in attività: retroterra che comprendeva quelle che, a partire dagli anni Sessanta, si designavano come «scienze umane» (fra le quali, per Zanzotto, posizioni primarie detenevano la linguistica, la psicoanalisi, l'antropologia), ma che, verso la fine del secolo e nel presente decennio, arrivava a comprendere tutte le svariate forme della tecnologia e della telecomunicazione, che Zanzotto – pur non praticandole – non cessava di perscrutare, nonché al l'occasione, di farne personalissima materia espressiva.
Nessun poeta, credo, più di Zanzotto ha guardato alla scienza con più interesse e partecipazione mentale, il che non escludeva, quando era il caso, la punta acuminata dell'ironia.
E tuttavia, questo zoccolo culturale imbevuto non solo di sapienza letteraria ma proprio di sapere scientifico, non agisce, nell'applicazione poetica, alla stregua di un elemento estraneo alla cosiddetta «ispirazione», ma perviene a far corpo, miracolosamente, con essa. Per Zanzotto, non si è trattato, insomma, di mettere in scena un sapere separato, con addizione successiva di un sapere formale, ma di attivarne le diverse manifestazioni – tematiche e lessicali – all'interno dell'invenzione poetica vera e propria.
Così, ad esempio, l'imponente sviluppo della linguistica, e nella fattispecie della linguistica strutturale, negli anni Sessanta, vede Zanzotto pronto ad assimilarlo, si direbbe naturalmente, alla propria profonda personale pulsione creativa. Per cui, tanto per fare un esempio, il problema di un linguaggio delle origini o dell'origine del linguaggio, viene da lui introiettato, magari ironicamente, nelle simulazioni poetiche dell'afasia e del balbettio («fa-favola, «e in quel ser-sereno»), che tanto sconcerto suscitarono ai loro primi occorrimenti in quel grande libro, a tutt'oggi centrale nella sua produzione, che è La Beltà (1968): sconcerto tanto più giustificato se si pensa che la simulazione dell'afasia e del balbettio rappresentavano soltanto il tratto iniziale di un'amplissima escursione linguistica che vedeva, all'altro capo, la simulazione, parimenti abnorme, della vociferazione babelica: vale a dire il rovescio della simulazione dell'origine.
Lo stesso si dica per l'altra scienza pilota di quegli anni, la psicoanalisi, quella, naturalmente, di matrice freudiana ma soprattutto quella impersonata da Lacan, in quanto interamente ruotante intorno al linguaggio. Anzi, si può dire che la recezione della linguistica strutturale da parte di Zanzotto si fa, soprattutto, attraverso la sua declinazione o derivazione lacaniana, per la priorità che Lacan, nella sua teoria, assegna al significante rispetto al significato. Il che implicava addirittura, sul piano di una epistemologia del conoscere, un capovolgimento radicale nei processi di percezione e di visione del mondo, capovolgimento di cui la Beltà offriva splendide, inaudite rappresentazioni.
Ed è proprio a partire dal rapporto vitale di Zanzotto con queste due scienze-pilota che il linguaggio finisce per assumere una funzione fondante nella sua esperienza della poesia: dalla letterarietà come luogo dell'autentico, in Dietro il paesaggio (1951), alla sillabazione di un dire tutto raccolto nella pura grammaticalità, quale si dà in Vocativo (1957) e poi in IX Ecloghe (1962: «"io" sia colui che "io" / "io" dire, almeno, può, nel vuoto, / può, nell'immenso scotoma, / "io", più che la pietra, la foglia, il cielo, "io"»), sino all'esperienza capitale, appunto, della Beltà, ove il significante linguistico ha il compito di gestire e di articolare la totalità espressiva. Con le opere successive, riunite generalmente sotto la titolazione cumulativa di Trilogia, il significante è volto a significare e a rappresentare addirittura il raso-terra del residuo e del detrito, anche umano, nel Galateo in Bosco (1978), mentre in Fosfeni (1983) esso sarà vocato a designare le altezze siderali, focalizzando il proprio correlativo oggettivo nel corpuscolo di ghiaccio o di brina. Con Idioma (1985), ultimo elemento della Trilogia, Zanzotto si misurerà con quella specie di fossile della lingua che è il dialetto, di cui aveva comunque già fornito una sorta di saga in Filò (1976).
Dell'eccezionalità di questa esperienza nell'ambito della modernità, abbiamo avuto modo di produrre esemplificazioni e descrizioni dettagliate in vari lavori su di lui, soprattutto nelle introduzioni e cure per le due edizioni antologiche delle poesie negli Oscar di Mondadori (1973 e 1993), nonché nella prefazione al Meridiano, comprensivo di tutte le poesie alla data di uscita del volume (1999). Tutte le poesie, fin quasi alla data del recente compleanno (10 ottobre 2011) figurano ora riproposte in un unico volume, ancora per gli Oscar mondadoriani, a cura di Stefano Dal Bianco, che vi premette un'introduzione per certi aspetti assolutamente innovativa, soprattutto nei riguardi delle raccolte pubblicate successivamente al Meridiano, e cioè Sovrimpressioni (2001) e Conglomerati (2009). In proposito, sarà di enorme importanza segnalare come Dal Bianco veda, nel l'ultima raccolta qui sopra citata, la ripresa di uno schema dantesco, e precisamente quello che presiede all'architettura delle tre cantiche della Commedia.

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