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Questo articolo è stato pubblicato il 30 ottobre 2011 alle ore 15:41.

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Ciò è vero anche del principale contributo che alla teoria politica Einaudi abbia apportato, ovvero la sua visione federalista. Egli era federalista nel duplice e coerente senso di volere una struttura federale per lo Stato nazionale italiano, e di volere una struttura federale per l'Europa unita da un autentico pactum foederis, non da meri accordi tra Stati sovrani i quali – come egli scrisse mirabilmente nel 1954 discutendo della Comunità Europea di Difesa, la grande opportunità tragicamente persa dal nostro continente – erano oramai diventati "polvere senza sostanza".

Il suo federalismo aveva due motivazioni fondamentali. La prima era empirica, ovvero l'osservazione che gli assetti federali ovunque nel mondo erano quelli che maggiormente avevano garantito la pace, la democrazia, e la prosperità economica. La seconda era morale, ovvero la considerazione che permettere la sfera più ampia possibile di autogoverno corrispondeva ai principi di libertà e di responsabilità. Quest'ultimo aspetto è illustrato mirabilmente da un passo scritto da Einaudi pochi anni prima della morte: "Se regioni, province, comuni devono ricorrere ad entrate proprie, nasce il controllo dei cittadini sulla spesa pubblica, nasce la speranza di una gestione sensata del danaro pubblico. Se gli enti territoriali minori vivono di proventi ricevuti o rinunciati dallo Stato o vivono, come accade, addirittura di sussidi, manca l'orgoglio del vivere del frutto del proprio sacrificio e nasce la psicologia del vivere a spese altrui".

Signor Presidente della Repubblica,
Signori partecipanti,

nella storia intellettuale prevalente del nostro Stato repubblicano a Einaudi è stata essenzialmente attribuita la figura del "buon amministratore", che guidò con saggezza e rigore la moneta e il bilancio nei primi anni della ricostruzione. Allo statista che rivendicò sempre con orgoglio le sue radici piemontesi, e che faceva suo il motto "gouvernè bin", che - egli ricordava – "nel genuino piemontese della nostra provincia di Cuneo [significa] ‘amministrare' con tatto, con sapienza, con competenza", questo ruolo non sarebbe certo dispiaciuto. Ma esso non rende adeguatamente conto del fatto che il liberalismo ed il liberismo di Einaudi non furono, come si è preteso per decenni, una vaga o peggio ancora una antiquata ideologia, residuo del secolo in cui era nato.

Einaudi sotto il fascismo venne pesantemente criticato per il suo liberismo, considerato antiquato rispetto alla pretesa modernità del corporativismo. Per farlo vennero persino citate a riprova le politiche del New Deal rooseveltiano. La visione di rigore nella gestione della moneta che guidò la sua azione di Governatore della Banca d'Italia, senza cedimento alcuno, e la sua opposizione alla continua espansione della mano pubblica in economia fecero poi considerare Einaudi come superato dalla generazione degli economisti italiani che prevalse nel secondo dopoguerra, sostenitori di quelle politiche di nazionalizzazione e di deficit spending che egli reputava invece tanto errate sul piano scientifico quanto moralmente inaccettabili.

Il risultato è che ad Einaudi è stato riservato il destino di non essere stato ricompreso nella formazione della moderna "ideologia italiana" con il rilievo che egli avrebbe meritato. Nell'Italia che è così fortemente ostacolata nel suo sviluppo civile ed economico dal permanere di un corporativismo diffuso e da una Repubblica che nella sua struttura e nel suo funzionamento non riesce a coniugare adeguatamente autorità e responsabilità ai vari livelli, nell'Europa che ancora oggi non riesce a darsi un assetto autenticamente federale e liberale, la visione di Einaudi è di una attualità straordinaria.

Lo è anche, e forse soprattutto, perché essa è costituita da un metodo critico di analisi della realtà e di risoluzione dei problemi più che da una teorizzazione sistematica.

Einaudi rifuggeva infatti, consapevolmente, dalle "grandi narrazioni" che furono così tipiche dei suoi tempi, e che oggi rivelano tutta la loro caducità e fragilità ideologica. Egli seguì sempre la massima richiamata da Cavour, per la quale nella dialettica intellettuale e politica non si devono mai opporre né fatti a principi né principi a fatti, ma si devono opporre principi a principi e fatti a fatti.

Einaudi, come John Maynard Keynes, come Friedrich von Hayek, riteneva che a guidare il mondo finalmente non fossero gli interessi materiali, ma le idee. In armonia con questa visione, permettetemi di esprimere l'opinione che il modo eminente di rendere oggi omaggio ad Einaudi è di tornare a leggerlo e a farlo leggere, specialmente alle nuove generazioni. Con ciò comprendendo davvero come individui e come comunità non solo il senso e l'attualità delle sue idee e dei suoi ideali, ma anche della sua straordinaria opera al servizio dell'Italia e dell'Europa che di quelle idee e di quegli ideali fu coerente e coraggiosa applicazione.

Angelo Maria Petroni è dottore dell'Université Catholique de Louvain e Ordinario nell'Università di Roma La Sapienza

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