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Questo articolo è stato pubblicato il 05 novembre 2011 alle ore 19:19.

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Illustrazione di Guido ScarabottoloIllustrazione di Guido Scarabottolo

Succedeva che in queste occasioni Giuliana, che aveva un altro vocabolario, mi chiedesse il mio per fare dei raffronti. Poi me lo restituiva. All'inizio del terzo trimestre, durante le ripetizioni del pomeriggio in Collegio, il tutore mi chiese in prestito il vocabolario di latino. Io glielo diedi. Dopo una diecina di minuti, uno schiaffone tanto violento quanto inatteso mi fece cadere dalla sedia. Il tutore mi sovrastava, rosso in faccia: «Mascalzone! Farabutto! Ti fai scrivere bigliettini amorosi dalla tua compagna! Non ti vergogni?».

Ero sbalordito, non mi ero mai accorto di quei bigliettini. Inoltre non ero stato io a volere che lei me li scrivesse, l'aveva fatto Giuliana spontaneamente. Il tutore accese uno zolfanello e li bruciò. E così io non conobbi mai le parole d'amore che Giuliana aveva scritto per me. Comunque il tutore parlò al preside e Giuliana venne cambiata di posto, in modo che non potesse più domandarmi il vocabolario.
Naturalmente, i banchi di questa seconda B sono diversi, la finestra si trova da un'altra parte. Il mio è stato un tentativo ingenuo di concretizzare un ricordo. Poi arriviamo nella palestra gremita. Gli studenti mi guardano con curiosità, composti e seri. Hanno sistemato un tavolo, mi fanno sedere al posto d'onore. Sul tavolo c'è una pila piuttosto alta di sottili quaderni dalla copertina lucida di un bel blu chiaro.

Il preside ne prende uno in mano, mentre un bidello comincia a distribuire gli altri tra i professori e gli studenti. Il preside mi sorride e dice che in questi quaderni sono raccolte le fotocopie di tutte le mie pagelle, dal primo ginnasio alla terza liceo. Inorridisco. Ero sicuro che fossero andate distrutte con l'ultimo bombardamento del 1943. E invece no, ecco qui, tutte di fila, le prove inoppugnabili del men che mediocre studente che sono stato. C'è una breve prefazione a firma del preside dov'è detto che la mia carriera scolastica ha avuto «un percorso un po' accidentato».
Bontà sua. I quattro si sprecano, c'è anche un bel sei in condotta e, credo che sia un caso unico, un rimando a ottobre, alla prima liceo, nientemeno che in educazione fisica. Non è che in educazione fisica fossi una schiappa, tutt'altro, solo che quell'anno mi stava molto antipatico l'insegnante, un tale sempre in divisa, sempre col nome di Mussolini sulle labbra. Ripeteva in continuazione, imperativo: «Scattare! Scattare!». Un giorno mi bloccai mentre ci stava facendo fare un esercizio estremamente faticoso e gli dissi: «Voi sbagliate verbo». Mi guardò a un tempo truce e perplesso: «E quale sarebbe il verbo giusto?». «Schiattare! Schiattare!» – risposi –. Si vendicò dandomi quattro.

Non oso alzare gli occhi dal libretto e guardare gli studenti. Ma all'improvviso esplode un fragoroso applauso. Tutti, ragazzi e ragazze, sono in piedi, agitano il quadernetto come facevano i cinesi col libretto rosso di Mao, mi urlano: «Bravo! Sei dei nostri!».
L'atmosfera diventa festosa. Ora sono veramente un loro compagno ritrovato, solo un po' tanto invecchiato.

«Beato te!» – mi dice alla fine dell'incontro un ragazzo di terza liceo –. «Che non hai dovuto sostenere l'esame di maturità!».
Infatti, nel 1943, con lo sbarco degli alleati in Sicilia imminente, venimmo promossi o bocciati a scrutinio. Ma l'esame di maturità lo facemmo lo stesso, sotto le bombe e i mitragliamenti, in mezzo ai morti e alle distruzioni.
Fu un esame durissimo che davvero ci maturò, ci fece diventare uomini.

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