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Questo articolo è stato pubblicato il 14 novembre 2011 alle ore 19:07.

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Leonardo Sciascia (Alinari)Leonardo Sciascia (Alinari)

Il giorno della civetta sta come testimone atipico entro un gruppo d'opere che nel quinquennio 1958-1962 hanno scosso il panorama editoriale nostrano, mostrando come una buona qualità espressiva possa coniugarsi senz'altro con successi di pubblico altrettanto cospicui: Il gattopardo, La ragazza di Bube, Il giardino dei Finzi-Contini. Ai bestseller di Tomasi, Cassola e Bassani, Sciascia aggiungeva però una quota inedita di passione civica, e soprattutto un più ardito intarsio di motivi letterari, un fraseggiare su matrici plurime e talora incomposte che riverbera sino a oggi il carattere nettamente sperimentale del progetto.

Una coincidenza cronologica di diversa natura andrebbe intanto segnalata. Nel settembre del 1961 esce il n. 4 del periodico «Menabò», in cui Vittorini addita all'attenzione di narratori e poeti il nesso ormai imprescindibile tra industria e letteratura. Pochi mesi prima, nel marzo, Sciascia aveva mandato in libreria il suo romanzo a tema mafioso, quasi a dire che non ci sarebbe stata alcuna vera modernizzazione italiana trascurando le condizioni in cui versava il Meridione e la Sicilia in particolare. D'altronde non è il Nord fordista a proporsi nelle pagine sciasciane come valida alternativa di civiltà; ma la specifica mediazione etico-politica, culturale ed economica fornita dalle cittadine emiliane.

Nella triangolazione geografica inscenata dal Giorno della civetta, Sicilia-Roma-Parma, è quest'ultima a ristorare il capitano Bellodi degli smacchi subiti, a rinnovarne l'impegno. Da qui origina il suo senso dello Stato (la scelta partigiana, il concetto altissimo della legge), e insieme l'amore inestinto per le umane lettere. Legge e cita forse un po' troppo, il giovane inquirente, tanto da lasciar trapelare l'autore che l'ha concepito. E tuttavia è in lui che il volume trova vera consistenza: o meglio nel punto di vista straniato di cui è latore, capace di dar conto della vicenda siciliana proprio perché restituisce le fattezze di una Sicilia "incredibile".

Alla lezione vittoriniana il nostro romanzo si affida eccome, ma in altro modo. L'esteso sondaggio psicologico di cui gode Parrinieddu-Dibella, il confidente dei Carabinieri, sarebbe inconcepibile senza Uomini e no. La fitta corona di metafore che lo adorna squisitamente attinge sì a una variegata consuetudine di prosa d'arte; però con uno slancio lirico ed esistenzialista di cui solo il siracusano era maestro. È come se del conterraneo Sciascia cerchi di ripristinare le maniere antiche, proprio mentre questi più se ne sente distante e più si sta sforzando di oltrepassarle. Lo stesso ricercare etno-sociologico, che tanto incide nel resoconto, trova un antecedente immediato nelle pagine del «Politecnico».

Il debito che il narratore di Racalmuto contrae con Vittorini, e più in generale con la "couche" neorealista, è ancora largamente da mettere in chiaro. E a riguardo ci si aspettano contributi importanti da una nuova rivista di studi internazionali come «Todomodo», ideata da Francesco Izzo e condotta dall'Associazione Amici di Leonardo Sciascia (l'editore è Olschki, e il primo numero sarà disponibile a giorni). Ma altrettanto opportuno è riavviare il discorso circa le fonti antimafiose alle quali il nostro autore attingeva: dalle inchieste ottocentesche di Franchetti, Villari e Bonfadini sino alle risultanze fornitegli dall'ufficiale dell'Arma Renato Candida. Già se ne è occupato con puntualità Massimo Onofri (Tutti a cena da don Mariano, Bompiani 1995); lasciando tuttavia sullo sfondo le varianti stilistiche e tipologiche che ne sarebbero derivate.

Fenomeni come usura, omertà, brigantaggio, contrabbando, racket, truffe edilizie nutrono in varia misura le opere del verismo storico. E Il giorno della civetta li riprende, per così dire, in seconda battuta, con un sovrappiù di scandalo. Talora dando corso a procedure di tipo sottilmente parodico: dietro alla sentenziosità memorabile del capo mafioso don Mariano Arena («gli uomini, i mezz'uomini, gli ominicchi» eccetera) è difficile non intravedere il sapienzialismo proverbioso di padron 'Ntoni Malavoglia. Nondimeno l'architettura narrativa con cui abbiamo a che fare, nel suo spiccato sistema chiaroscurale, ha robusti elementi di contatto con un'altra tradizione, analogamente frequentata da Sciascia: quella del romanzo popolare d'appendice. Binomi ben definiti come onore/disonore, giustizia/sopruso, buoni/cattivi si riflettono direttamente nella doppia coppia costituita da Bellodi-Dibella e Bellodi-don Mariano. Proprio da qui sorsero a suo tempo le polemiche più aspre: giacché Sciascia, nell'intento di sfumare problematicamente antitesi tanto secche, vi introduce un senso di superiore compartecipazione.

Un moto di estremo riguardo chiarissimo e comprensibile dinnanzi al povero Dibella, la cui morte annunciata suscita nel capitano «una risposta di pietà, di religione». Assai più insidioso nel caso di don Mariano, spregiudicato assassino, che tuttavia egli paragona a «una massa irredenta di energia umana», di «solitudine», di «tragica volontà» (dove l'aggettivo "irredenta" rinvia nuovamente a un codice religioso). È ben vero che ingredienti tanto datati, e tanto faticosamente rifusi, convivono accanto a soluzioni stilistiche di latitudine contemporanea: una certa "imagerie" di taglio metafisico (il labirinto, il pozzo al fondo del quale giace la verità, il chiàrchiaro: landa desolata dove Dio «ha gettato la spugna»). O ancora un particolare anonimato, a cui Sciascia ricorre per timore della censura, e tale da richiamare le funzioni della drammaturgia espressionista: l'Eccellenza, il Deputato, il Procuratore della Repubblica.

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