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Questo articolo è stato pubblicato il 11 dicembre 2011 alle ore 15:32.

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La collana dei «Classici Ricciardi», ora edita dall'Istituto della Enciclopedia Italiana, rinasce con un volume che presenta la "memoria condivisa" intorno a libri che abbiano fatto, in questi 150 anni, gli Italiani. Quando si debba introdurre a un periodo così lungo di anni e di libri (1861-2011), una tensione si produce tra i sottesi elementi di continuità e gli emergenti fenomeni di rottura. A quale epoca dovremmo ascrivere questo passo? «Accattonaggio - Aggiotaggio - Affarismo - Affarista - Ballottaggio - Carriera (per professione) - Colpo di stato - Comitato - Crisi ministeriale - Decorazione (per insegna cavalleresca) - Dimostrazione popolare - Esplosione - Esposizione - Evoluzione storica - Favoritismo - Giornalismo - Interpellanza - Iniziativa - Manovra - Marcia - Mozione...».

Dell'autore si indovina l'ironico disagio, ma quell'insieme di termini può rinviare agli anni tra il 1921 e il 1926 (moti e occupazione delle fabbriche, marcia su Roma), alla crisi del 1948, alle effervescenze del 1968, al nostro presente. Sorprenderà scoprire, nella conclusione dell'apologo, che altro è il tempo, ma ininterrotta l'applicazione: si tratta de L'idioma gentile di Edmondo De Amicis (Treves, 1905) e l'autore aggiunge che non sono neologismi: «da quasi mezzo secolo mi suonano così spesso nella mente e all'orecchio che oramai mi paiono di quelle Voci della natura o delle cose che parlano nei cori fantastici dei poemi».

Non è dunque antistorico offrire continuità organica al volume appoggiandoci agli elementi di lunga durata: la lingua, le forme moderne del vivere associato: la scuola, i giornali, i parlamenti, i diritti dei cittadini. E tale nervatura percorre in effetti l'antologia: né sarebbe possibile altrimenti, tanto più in un Paese ove alla vita pubblica, per l'analfabetismo di molta parte della popolazione, hanno partecipato sino al II dopoguerra, soltanto le élites della cittadinanza.

Siffatta identità che emana dalle Istituzioni, e in particolare dagli strumenti destinati alla scuola, è parte cospicua del volume, il quale percorre i «libri che hanno fatto gli italiani» esattamente là ove hanno fatto la memoria collettiva degli italiani, quella più ampia e condivisa: cioè soprattutto i libri di scuola media. Tale percorso attraverso gli strumenti dell'educazione completa quello altrove da me tracciato quanto ai romanzi e all'utopia del lavoro (da Cesare Cantù a Massimo Olivetti), se "scuola e lavoro" possono ancora dirsi le matrici che hanno costruito l'identità e i simboli della nazione.

Ognuno di noi ha in mente i libri che avrebbero potuto fare gli italiani: gli scritti di Gobetti e di Gramsci, sopra tutti; non è stato così, nel loro tempo, e si è preferito aderire alla realtà storica, ma non al punto da attestare soltanto i libri che hanno disfatto gli Italiani, che li hanno illusi, fuorviati, nutriti di parole sonanti. D'Annunzio nel volume non c'è – se non per quello che le antologie del periodo fascista fecero penetrare sui banchi di scuola –: semmai vi è l'immaginifico del popolo, Emilio Salgari.

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