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Questo articolo è stato pubblicato il 10 dicembre 2011 alle ore 16:52.

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I siciliani non scrivono memorie. Sebbene il nomadismo sia un tratto comune della "sicilitudine" moderna, e si accompagni con la nostalgia che l'allontanamento dal paese-isola produce, da un secolo e passa i siciliani emigrati hanno contribuito relativamente poco al genere letterario dell'autobiografia. Hanno preferito fare i conti in forme più indirette con un problema da molti di loro condiviso, con il tema chiave dello spaesamento.

Stando così le cose, ci si potrebbe chiedere a quale genere appartenga il libro di Gianni Riotta, Le cose che ho imparato. E non soltanto perché i siciliani non scrivono memorie, ma perché Riotta non ha davvero l'aria di avere scritto questo libro con l'attitudine del memorialista, di colui che si volge indietro a considerare più o meno pensosamente un'esperienza conclusa. Questo non è il libro di qualcuno - si diceva un tempo per i calciatori - che abbia appeso le scarpe al chiodo. È il libro di qualcuno momentaneamente a bordo campo ma con gli scarpini ancora ai piedi, e ancora pieno di energie (direbbe Beppe Bergomi, interista come lui) per "attaccare lo spazio".

A voler essere maliziosi, si potrebbe supporre che Riotta abbia scritto il libro proprio per tale motivo: per ricordare a tutti che lui è lì a bordo campo, riserva di lusso in una Repubblica delle Lettere giornalistiche che non può fare a meno del suo talento, non può lasciarlo in panchina troppo a lungo. E si potrebbe supporre che proprio per questo Riotta abbia rinunciato a evocare i big match del suo passato recente, la direzione del Tg1, la direzione del "Sole 24 Ore": per non dare l'idea di parlarne da memorialista, alla proustiana ricerca di un suo tempo perduto. Ma a voler essere maliziosi non si coglierebbe l'essenziale. Si perderebbero di vista le ragioni profonde che hanno spinto un giovanile cinquasettenne a scrivere un libro tanto urgente e tanto scoperto. In realtà, Le cose che ho imparato è anzitutto l'omaggio di un figlio a un padre che non c'è più (ed è l'omaggio a una madre che ha insegnato al figlio perché non piangere ai funerali). È una lunga lettera aperta del bambino fattosi adulto a Salvatore Totò Riotta, il padre giornalista che lo aveva battezzato al mestiere scortandolo nottetempo nella tipografia del "Giornale di Sicilia", via Lincoln, Palermo anni Sessanta.

Via Lincoln: come ad annunciare, con la gratuita sovranità del caso toponomastico, un destino d'oltreoceano, tutta la distanza fra Palermo e la Merica, le campagne presidenziali degli anni Ottanta e Novanta raccontate dal corrispondente del "Corriere della Sera"? In effetti, la chiave dell'omaggio del figlio al padre sta nella misura della distanza che ha separato la carriera provinciale di Salvatore dalla carriera planetaria di Gianni, ma sta insieme nel riconoscimento - o nell'illusione - che quella distanza non abbia prodotto una differenza. Che l'interpretazione del mestiere di giornalista abbia potuto rimanere, da ultimo, la stessa. Che tutti i giri del mondo, tutte le boarding pass, tutti i jet lag, tutti i pezzi dettati al telefono, tutti gli email e gli sms e i tweets, non abbiano cancellato la fedeltà del figlio all'imprinting del padre, un imprinting morale prima ancora che professionale.

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