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Questo articolo è stato pubblicato il 11 dicembre 2011 alle ore 08:18.

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Nonostante il difficile momento dell'Italia e dell'Europa la buona notizia è che a Siena è nata la prima «Libera Università del Jazz» d'Italia. È un riconoscimento importante non solo per Siena Jazz, che da oltre trent'anni rappresenta la massima espressione della didattica jazz in Europa, ma direi per la musica tutta, e soprattutto per quelle espressioni che in Italia non godono di sufficiente attenzione e che vengono ancora relegate al ruolo di linguaggi di nicchia. Un buon segnale, stante la difficoltà a riconoscere a tutte le culture contemporanee lo stesso valore, scardinando l'antica presunzione delle egemonie colte.
La notizia dunque ha molteplici significati. Se da una parte rappresenta l'avanzamento del pensiero creativo, dall'altra riconosce al jazz (e apre le porte alle musiche altre) un valore contemporaneo in seno alla società occidentale collocando tale genere nell'albero genealogico del nostro Dna che non è più solo il repertorio operistico o la canzone. È inoltre il riconoscimento di un percorso tipicamente italiano: se a volte poco si fa nelle istituzioni pubbliche per via di un lassismo atavico, è grazie all'energia e al trasposto dei singoli che si riesce talvolta a costruire grandi palazzi solidi. Siena Jazz grazie al lungimirante lavoro di Franco Caroni è riuscita a realizzare un sogno.
Personalmente ho vissuto l'esperienza di Siena Jazz prima come allievo e poi come docente per oltre quindici anni. Nell'estate del 1982 ero studente e partecipai al saggio di fine corso in Piazza Tolomei assieme ad un manipolo di musicisti sardi, con il pianista Enrico Pieranunzi come docente. Alla fine dell'esibizione, noi tesi come corde di violino, ci disse: «bravi, sembrava quasi jazz!». «Quasi jazz» perché al jazz ci si arriva. E non è facile.
Pieranunzi diceva che il jazz non si insegna e infatti, dopo qualche anno, lasciò i corsi di Siena per dedicarsi totalmente all'attività concertistica e, mentre lui stava per abbandonare, io stavo diventando parte del gruppo docente degli stessi corsi dove solo qualche anno suonavo il "quasi jazz" in Piazza Tolomei.
Da parte mia ero convinto che il jazz non si potesse insegnare ma che si potesse almeno trasmettere una filosofia di pensiero e trasferire in tempo reale tutte quelle informazioni di carattere tecnico che avrebbero accelerato il percorso di crescita. Tant'è che io stesso, nel 1989, ho fatto nascere dei corsi nella città di Nuoro e che ora giungono alla 24a edizione.
Davo ragione a Pieranunzi in parte ma allo stesso tempo ero cosciente che per apprendere il jazz bisogna essere predisposti; altrimenti non accade niente e dopo venti anni uno arriva a suonare il "quasi jazz": e non è un bel sentire.

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