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Questo articolo è stato pubblicato il 11 dicembre 2011 alle ore 08:15.

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di Sergio Luzzatto
I siciliani non scrivono memorie. Sebbene il nomadismo sia un tratto comune della "sicilitudine" moderna, e si accompagni con la nostalgia che l'allontanamento dal paese-isola produce, da un secolo e passa i siciliani emigrati hanno contribuito relativamente poco al genere letterario dell'autobiografia. Hanno preferito fare i conti in forme più indirette con un problema da molti di loro condiviso, con il tema chiave dello spaesamento.
Stando così le cose, ci si potrebbe chiedere a quale genere appartenga il libro di Gianni Riotta, Le cose che ho imparato. E non soltanto perché i siciliani non scrivono memorie, ma perché Riotta non ha davvero l'aria di avere scritto questo libro con l'attitudine del memorialista, di colui che si volge indietro a considerare più o meno pensosamente un'esperienza conclusa. Questo non è il libro di qualcuno - si diceva un tempo per i calciatori - che abbia appeso le scarpe al chiodo. È il libro di qualcuno momentaneamente a bordo campo ma con gli scarpini ancora ai piedi, e ancora pieno di energie (direbbe Beppe Bergomi, interista come lui) per "attaccare lo spazio".
A voler essere maliziosi, si potrebbe supporre che Riotta abbia scritto il libro proprio per tale motivo: per ricordare a tutti che lui è lì a bordo campo, riserva di lusso in una Repubblica delle Lettere giornalistiche che non può fare a meno del suo talento, non può lasciarlo in panchina troppo a lungo. E si potrebbe supporre che proprio per questo Riotta abbia rinunciato a evocare i big match del suo passato recente, la direzione del Tg1, la direzione del "Sole 24 Ore": per non dare l'idea di parlarne da memorialista, alla proustiana ricerca di un suo tempo perduto. Ma a voler essere maliziosi non si coglierebbe l'essenziale. Si perderebbero di vista le ragioni profonde che hanno spinto un giovanile cinquasettenne a scrivere un libro tanto urgente e tanto scoperto. In realtà, Le cose che ho imparato è anzitutto l'omaggio di un figlio a un padre che non c'è più (ed è l'omaggio a una madre che ha insegnato al figlio perché non piangere ai funerali). È una lunga lettera aperta del bambino fattosi adulto a Salvatore Totò Riotta, il padre giornalista che lo aveva battezzato al mestiere scortandolo nottetempo nella tipografia del "Giornale di Sicilia", via Lincoln, Palermo anni Sessanta.
Via Lincoln: come ad annunciare, con la gratuita sovranità del caso toponomastico, un destino d'oltreoceano, tutta la distanza fra Palermo e la Merica, le campagne presidenziali degli anni Ottanta e Novanta raccontate dal corrispondente del "Corriere della Sera"? In effetti, la chiave dell'omaggio del figlio al padre sta nella misura della distanza che ha separato la carriera provinciale di Salvatore dalla carriera planetaria di Gianni, ma sta insieme nel riconoscimento - o nell'illusione - che quella distanza non abbia prodotto una differenza. Che l'interpretazione del mestiere di giornalista abbia potuto rimanere, da ultimo, la stessa. Che tutti i giri del mondo, tutte le boarding pass, tutti i jet lag, tutti i pezzi dettati al telefono, tutti gli email e gli sms e i tweets, non abbiano cancellato la fedeltà del figlio all'imprinting del padre, un imprinting morale prima ancora che professionale.
Totò Riotta aveva avuto il suo battesimo di giornalista nella Palermo dell'estate 1943. Attore dilettante, aveva visto premiate le sue doti di dizione con un incarico di speaker per Radio Palermo, l'emittente messa su dagli Alleati dopo lo sbarco in Sicilia. Padrino di battesimo: Mikhail Kamenetzky alias Ugo Stille, l'immigrato russo profugo ebreo nell'Italia degli anni Trenta, l'amico fraterno di Giaime Pintor che aveva dovuto poi abbandonare anche l'Italia a causa delle leggi razziali ma ci era rientrato con l'esercito americano da responsabile del Psychological Warfare Branch, cioè da specialista della guerra psicologica. Quel sergente Kamenetzky con i piedi sul tavolo - entrasse pure nella stanza un colonnello - che agli occhi di Riotta padre (e indirettamente di Riotta figlio) sarebbe rimasto, ben dopo la campagna d'Italia, il simbolo di un mondo nuovo, il simbolo del mondo liberato dal fascismo.
Sono anche altre, evidentemente, le cose che Gianni Riotta ha imparato da quarant'anni o quasi di giornalismo: le "storie, incontri, esperienze" che gli "hanno insegnato a vivere", come recita il sottotitolo del suo volume. Ma piuttosto che farne qui l'inventario, dal consiglio dell'amico palermitano Zio Volpe, "cammina sempre a testa alta", alla regola d'oro dell'inviato di guerra Walter Cronkite, "impara a riconoscere l'artiglieria nemica da quella amica", fino alla raccomandazione del professore di giornalismo alla Columbia University, "sii sempre il caporedattore di te stesso", bisogna notare come questa memoria di un non memorialista, o questa lettera aperta a un padre che non c'è più, finisca per essere - quasi più di ogni altra cosa - un libro sui libri.
Sui libri letti da ragazzo, ancora in Sicilia, e non più dimenticati, Salgari, Calvino, Verne, l'Odissea, Sciascia, Stevenson, London, Guerra e pace, Dostoevskij. Sui libri scoperti all'università e mandati a memoria, Virgilio, Ovidio, Husserl, Tarski, Primo Levi. E sui libri letti a diecimila metri d'altezza e nell'ordine sparso della vita, stropicciandosi gli occhi per l'aria rarefatta, lungo interminabili notti nei cieli dell'Atlantico: Gogol, Sun Tzu, Clausewitz, Nievo, Bassani, Kerényi, Banfield, Eschilo, l'Ecclesiaste, Minsky, Conrad, Bob Kennedy, Nievo, Putnam, Said, e ancora l'inaggirabile Pirandello, l'amatissimo Camus, il venerato Vassilij Grossman...

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