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Questo articolo è stato pubblicato il 18 dicembre 2011 alle ore 08:17.

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di Massimo Firpo
Numerosi furono i nuovi ordini religiosi scaturiti dalla tragica crisi vissuta nel '500 dalla Chiesa di Roma, sprofondata in età rinascimentale in abissi di corruzione morale, di simonia, di assenteismo pastorale, e al tempo stesso sfidata sul terreno religioso e teologico dall'insorgere di sempre nuove ondate della Riforma protestante – luterana, anglicana, calvinista – e delle sette radicali. I gesuiti, i teatini, i barnabiti, i somaschi furono solo i primi tra i nuovi ordini di chierici regolari che di quella crisi furono al tempo stesso un segnale e una reazione, prima che i conflitti politici europei e le ambizioni nepotistiche dei papi Medici e Farnese consentissero di inaugurare il concilio di Trento.
Non v'è dubbio che tra quei nuovi ordini religiosi il maggior successo abbia arriso ai gesuiti, ancor oggi autorevole congregazione diffusa in ogni parte del mondo, anche se in anni recenti una serie di più o meno evidenti conflitti con i vertici della curia romana ne hanno appannato l'immagine di fedelissime truppe scelte al servizio del papa, in virtù dello speciale voto di obbedienza da essi prestato e del loro impegno a ottemperare perinde ac cadaver agli ordini dei superiori. Una disciplina ferrea, insomma, che avrebbe consentito la mirabile crescita di un ordine capace di far propria la cultura umanistica per piegarla alle esigenze controriformistiche; di dar vita ai più aggiornati collegi per la formazione delle classi dirigenti europee; di schierarsi in prima fila in difesa della fede cattolica (gesuita fu san Roberto Bellarmino, l'autore delle immani Controversiae contro i protestanti e inquisitore di Galileo); di diffondersi negli sconfinati territori dell'America e dell'Asia aperti dai viaggi di conquista, dove seppe compiere uno straordinario sforzo di conoscenza delle culture locali e di adeguamento alle loro pratiche sociali e finanche religiose; di dedicarsi con ardore alla riconquista del popolo cristiano nelle miserabili campagne solo superficialmente cristianizzate (le «Indie di casa nostra»); di conquistare le coscienze dei principi attraverso il confessionale e la guida delle anime con gli esercizi spirituali.
Successi grandiosi, insomma, che una storiografia gesuitica militante ha ricostruito come frutto del carisma del fondatore, muovendo dalle origini di quello sparuto gruppetto di seguaci di sant'Ignazio, il rozzo soldataccio passato attraverso la luce della conversione e poi gli studi ad Alcalá, a Salamanca, a Parigi, per trasferirsi poi a Venezia in pellegrinaggio verso la Terra santa e trovarsi invece a Roma e vedere la piccola Societas Iesu trasformarsi in un nuovo ordine religioso nel 1540, fondare collegi, mandare ovunque predicatori, aprire nuove case, fronteggiare le migliaia di domande di giovani ansiosi di farsi martirizzare da ignoti indios americani o di convertire alla fede di Cristo i raffinati mandarini cinesi o gli ascetici seguaci delle religioni indiane.
Ed è proprio su questa prima generazione di gesuiti che si appunta lo sguardo di Guido Mongini, che penetra con grande intelligenza nel poco che resta delle fonti più antiche, per metterne in luce contraddizioni, reticenze, omissioni, vere e proprie censure sulla vita di sant'Ignazio e soprattutto sull'ispirazione religiosa di quei nuovi soldati di Cristo, e cogliere invece tra le screpolature della documentazione le tracce superstiti di un'identità peculiare. Senza lasciarsi intrappolare nei luoghi comuni di una storiografia tenacemente apologetica, Mongini indaga con finezza nelle pieghe di quell'identità originaria, segnata in profondità dalle matrici eterodosse dell'alumbradismo spagnolo, evidenti del resto nelle diffidenze, nei sospetti, nelle esplicite accuse di cui lo stesso sant'Ignazio fu fatto segno, tanto da essere per ben otto volte processato dall'Inquisizione in Spagna, in Francia e in Italia. Un illustre teologo domenicano giunse a denunciare lui e i suoi seguaci come precursori dell'Anticristo. Persecuciones, diranno i gesuiti, e come tali segni della speciale grazia e investitura divina del fondatore, vero e proprio novello Cristo o san Paolo intorno al quale si era raccolta la piccola comunità dei suoi primi discepoli, 12 come gli apostoli, protesi a restaurare il modello della Chiesa primitiva, che in quanto tale sfidava implicitamente la Chiesa di Roma, così lontana e diversa da quella di Gerusalemme, destando da un lato quei sospetti e quelle diffidenze e legittimando dall'altro le prudenze, i silenzi, le autocensure della giovane congregazione, che ne ispirarono sia la ricostruzione del passato sia l'azione nel presente.
Di qui i comportamenti cauti, sfuggenti e talora ambigui, all'esterno come all'interno di un ordine fortemente gerarchico, fondati sulle strategie di esoterico gradualismo apprese alla scuola degli alumbrados spagnoli (con i quali sant'Ignazio ebbe intensi legami) e diventati nella prassi e nel linguaggio stesso dei primi gesuiti «el nuestro modo de hablar» (soprattutto su questioni teologiche), «el nuestro modo de proceder», mai definiti, ma evidentemente ben noti – nelle forme come nei contenuti – a coloro (non tutti) che fossero stati iniziati a quei riposti contenuti dottrinali e agli obiettivi che essi si prefiggevano («cosas secretas»). E diventati anche prassi pedagogica rivolta agli stessi laici, come risulta dalla fine lettura qui proposta degli Esercizi spirituali ignaziani, non a caso condannati dai domenicani spagnoli, e degli esiti di lungo periodo delle "strategie di dissimulazione" dei gesuiti, nella loro capacità di adeguarsi ai riti cinesi o nella miriade di esperienze mistiche femminili che trovarono in essi i loro direttori spirituali.

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